Aps-II La grande crisi europea

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Crisi economica ed Europa[modifica]

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Marco Da dieci anni ormai l’Italia è in crisi, i giovani non trovano lavoro, l’economia non cresce, il debito pubblico continua a salire. Come possiamo spiegare le cause di questa situazione?

Aps Non solo l’Italia ma tutta l’Unione europea ha attraversato la crisi economica più grave che il mondo abbia conosciuto dagli anni Trenta del Novecento. È una crisi che l’Europa ha importato dagli Stati Uniti, dove tra il 2007 e il 2008 dapprima una gigantesca bolla immobiliare (i mutui per l’acquisto di case venivano concessi anche ad acquirenti privi di garanzie e tuttavia il valore degli immobili saliva inarrestabilmente, sino al momento in cui la bolla scoppiò) poi il fallimento della grande Banca d’affari Lehmann Brothers hanno gettato la finanza e l’economia statunitense nella crisi: si ebbe un calo vistoso dell’occupazione e una brusca discesa del Prodotto interno lordo (il Pil). La crisi si è trasmessa rapidamente in Europa, dati gli intrecci strettissimi tra le economie e la finanza delle due parti dell’Atlantico.

Marco Come hanno reagito gli Stati Uniti?

Aps Gli Stati Uniti hanno reagito con decisione e immediatezza, attraverso investimenti massicci del governo federale nell’economia, dell’ordine di 800 miliardi di dollari. Sono anche intervenuti a risanare e ricapitalizzare i bilanci delle banche. E nell’arco di un paio d’anni hanno invertito la tendenza, riprendendo la crescita e contrastando la disoccupazione.

Non è certo un caso che negli Usa la produzione sia presto tornata a crescere a più del 3% del PIL mentre in Europa è rimasta a lungo sotto la metà di questo valore; e la disoccupazione, che negli Usa è presto tornata ad un tasso quasi fisiologico del 4%, in Europa è tuttora in media del 10%, con punte molto più elevate ancora per la disoccupazione giovanile. Questo va detto, senza però dimenticare che l’Unione è stata tutt’altro che passiva di fronte alla crisi.

L’Unione non ha potuto operare entro l’Eurozona in modo analogo agli Usa, perché non disponeva di un vero governo dell’economia, né di un adeguato bilancio comune, né delle necessarie risorse. Il riconoscimento di questi handicap ha spinto le istituzioni dell’UE a introdurre molteplici riforme dell’unione moneraria negli ultimi anni.

Marco Come ha agito l’Unione europea?

Aps L’Unione ha reagito alla crisi con una serie impressionante di misure adottate soprattutto negli anni dal 2010 al 2013. Esse hanno essenzialmente lo scopo di disciplinare quei bilanci nazionali che sono devianti rispetto ai parametri fissati dal trattato di Maastricht, e questo per evitare che la crisi finanziaria o bancaria di un Paese dell’Unione, in particolare entro l’Eurozona, possa mettere a rischio l’economia, la finanza, il sistema bancario e la moneta dell’Unione nel suo complesso. Ma tali misure hanno hanno purtroppo determinato in molti casi politiche fiscali pro-cicliche anziché incentivare la crescita e l’occupazione che la crisi aveva bloccato. La recente crisi in Europa è stata molto difficile da gestire anche perché – nata come crisi finanziaria importata dagli USA – è diventata crisi bancaria, economica e sociale. L’Unione è intervenuta in sostegno dei paesi in difficoltà creando l’European Financial Stability Facility (EFSF, maggio 2010), presto sostituito dal Fondo European Stability Mechanism (ESM, gennaio 2012), tuttora in vigore, come abbiamo già ricordato. Parallelamente l’Unione ha fortemente potenziato le misure finalizzate a coordinare le politiche di bilancio dei Paesi membri verso il rispetto dei parametri di Maastricht, con l’obiettivo di portare i Paesi con elevato debito pubblico, più esposti agli attacchi speculativi, a intraprendere politiche di graduale riduzione del debito (“Six pack”, dicembre 2011, Fiscal Compact (ottobre 2012), e “Two pack”, maggio 2013). Tutte queste iniziative dell’Unione hanno coinvolto la Commissione, il Consiglio europeo, l’Ecofin che comprende i ministri delle finanze dell’Unione e l’Eurogruppo che oggi include i 19 Paesi che hanno adottato l’Euro.

Marco Cos’è il Fiscal Compact?

Aps La procedura di rafforzamento del controllo dei bilanci degli Stati membri è culminata nel Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance (in vigore dal 3 ottobre 2012), noto come Fiscal Compact, votato da tutti gli Stati membri ad eccezione della Gran Bretagna e della Repubblica Ceca (quest’ultima ha però in seguito aderito). Si è tra l’altro deciso di inserire nelle rispettive legislazioni nazionali il principio del pareggio del bilancio; anche l’Italia lo ha fatto, rafforzando con un voto a larghissima maggioranza del nostro Parlamento un principio che già figurava nella nostra Costituzione all’art. 81. Va detto che il Fiscal Compact ha la natura di un accordo tra governi, con i limiti di legittimazione democratica che questo fatto comporta.

Marco Perché sono state necessarie regole così stringenti sui bilanci nazionali, sul deficit e sul debito pubblico?

Aps . Quando a Maastricht nel 1992 si è decisa la creazione della moneta unica, questa scelta implicava ovviamente il passaggio della sovranità monetaria dagli Stati all’Unione attraverso la Banca centrale europea (Bce). Sino alla nascita dell’euro gli Stati, pur attraverso complesse procedure concordate, potevano far fronte a crisi economiche e finanziarie attraverso lo strumento del cambio delle rispettive monete, anzitutto con le svalutazioni competitive. L’Italia lo aveva fatto ripetutamente. Con la moneta unica questo non è più stato possibile con riferimento ad un singolo Stato membro dell’Unione: la Banca centrale è la sola titolare della politica monetaria dei Paesi dell’euro e deve tener conto dell’intera Eurozona della quale è garante quanto alla stabilità monetaria. Il Trattato di Maastricht ha inoltre disposto tassativamente che la creazione di nuova moneta da parte della Banca centrale europea non possa essere utilizzata per ripianare il debito eccessivo di uno Stato membro dell’Unione, tale da renderlo insolvente, perché questo comporterebbe alla fine di mettere a carico dei contribuenti degli altri Stati membri il peso di una politica economica non sana praticata dallo Stato in questione.

Infatti poteva accadere (e può tuttora accadere) che uno Stato con una finanza pubblica fuori controllo si trovi nell’impossibilità di farvi fronte se l’onere per gli interessi sale eccessivamente, sino a rendere insostenibile l’impegno conseguente; in tal caso può entrare in crisi non solo la finanza pubblica dello Stato insolvente ma anche l’intero suo sistema bancario, e non solo quello del Paese indebitato. Occorre allora ricondurre lo Stato deviante ad una gestione corretta del proprio bilancio, che accompagni gli interventi di sostegno per uscire dalla crisi. È questo il motivo per il quale la crisi iniziata nel 2008 ha indotto l’Unione ad adottare le misure delle quali abbiamo appena parlato, nell’intento di rendere cogenti le regole introdotte a Maastricht.

Marco Ma la Banca centrale europea non potrebbe stampare moneta per intervenire a sostegno di uno Stato insolvente?

Aps È ciò che alcuni critici dell’euro e della moneta unica vorrebbero e ciò che chiedono con insistenza. Senonché questa richiesta è priva di fondamento. Nessuna Banca centrale – neppure la Federal Reserve americana – è prestatore di ultima istanza di uno Stato che si indebita in misura tale da mettere a rischio la propria solvibilità. Lo faceva l’Italia sino al 1981, generando un’inflazione crescente e altamente dannosa. Dopo di allora si è introdotto anche in Italia il principio dell’indipendenza della Banca centrale. È il cardine adottato anche dalla Banca centrale europea in base al trattato di Maastricht, proprio per impedirle di svolgere la funzione di prestatore di ultima istanza di uno Stato, perché ciò “eliminerebbe qualsiasi incentivo per i governi a tenere sotto controllo le finanze pubbliche” (Bini Smaghi, 2014, p. 93), con le conseguenze che sappiamo.

Marco Quale è stato il ruolo della Banca Centrale Europea nella gestione della crisi?

Aps Il ruolo della Bce è stato fondamentale per garantire la stabilità della moneta e stabilizzare le condizioni sui mercati monetari e finanziari. All’apice delle turbolenze dell’estate 2012, un discorso di Draghi ha calmato i mercati, attestando l’autorevolezza e la credibilità della Bce. La frase famosa pronunciata allora suonava semplicemente così: “within our mandate, the European Central Bank is ready to do whatever it takes to preserve the euro; and believe me, it will be enough”. Gli interventi della Banca centrale sono stati incisivi e molteplici; essi hanno incluso un piano di rifinanziamento a lungo termine mediante prestiti alle banche (Ltro, 2011-2012), l’acquisto sul mercato secondario di titoli di Stato (Smp, 2012) nonché il possibile acquisto diretto da parte della Bce di titoli di stato a breve termine emessi da Paesi in difficoltà macroeconomica grave e conclamata, a condizione che i conti pubblici dello Stato siano sotto controllo: è questo l’Outright Monetary Transaction (OMT, settembre 2012) che la Corte di giustizia europea, alla quale la Corte costituzionale tedesca aveva fatto ricorso, ha dichiarato legittimo nel 2014. A due riprese, nel 2014 e nel 2016, sono stati attivati per gli enti creditizi finanziamenti sino a quattro anni a condizioni particolarmente favorevoli (Tltro). Il rischio molto grave di una deflazione ha nel frattempo indotto la Bce ad intraprendere il Quantitative Easing (QE) allo scopo di rendere più conveniente e più fluido il credito: la Banca centrale europea ha immesso per alcuni anni nel circuito del credito un volume di liquidità enorme, 60 miliardi di euro al mese ed anche oltre, con lo scopo di consentire alle banche di operare senza restrizioni e di evitare la deflazione che si stava preparando, anche allo scopo di riportare l’inflazione verso il valore indicato dai trattati, vicino al 2%. Iniziato nel marzo 2015, il QE sembra ormai in fase di chiusura. Ma purtroppo non è stata impiegata a sufficienza per incrementare l'occupazione con investimenti pubblici, come invece sarebbe stato possibile (Fubini, Corriere, 27.12.2018). L’OMT permane fra gli strumenti attivabili dalla Bce, alle condizioni però che abbiamo ricordato, cioè solo a fronte di una politica di risanamento (verificabile e monitorata) da parte dello Stato o degli Stati membri che intendono usufruirne.

Marco Tutte queste misure sono bastate per superare la crisi economica e finanziaria?

Aps Esse hanno bensì gradualmente riportato l’ordine nei bilanci nazionali di alcuni Paesi (in particolare Spagna, Portogallo, Irlanda), talora al costo di disagi estremamente pesanti, come è accaduto in Grecia. La crisi ora è sostanzialmente superata. Ma la ripresa è stata lenta e faticosa, anche a causa di un contesto internazionale sfavorevole. Si è andati vicino ad una vera recessione dell’economia che avrebbe avuto conseguenze devastanti sull’occupazione.

Marco L’euro dunque ha superato la crisi?

Aps Sì, questa crisi è stata superata. Decisivo è stato il ruolo della Banca centrale europea, attraverso le misure che abbiamo appena ricordato. Particolare importanza assumono gli interventi adottati per stabilizzare il sistema bancario, rafforzandone il capitale e centralizzando la vigilanza delle banche di maggiori dimensioni presso la Bce. È questo il progetto, ancora incompleto, dell’unione bancaria.

Marco Possiamo allora stare tranquilli per il futuro?

Aps Purtroppo no. Per diverse ragioni. Perché non tutti gli Stati hanno messo i propri conti in ordine, a cominciare proprio dall’Italia, che oggi costituisce il fronte più esposto dell’intera Eurozona. Perché il sistema finanziario e i mercati non sono prevedibili e possono sempre precipitare in nuove crisi. E perché l’unione bancaria non è stata ancora completata.

Marco In Europa ci vuole dunque anche una riforma del sistema bancario?

Aps Certamente, per l’interconnessione stretta tra le economie e la finanza dei diversi Paesi dell’Unione, senza la quale il mercato unico non potrebbe funzionare. L’Unione, sotto la spinta della crisi, si è posta un obbiettivo fondamentale, quello di dar vita ad una effettiva unione bancaria. La decisione è scaturita dal Consiglio europeo di fine giugno 2012 che ha recepito il cosiddetto Documento dei quattro Presidenti, una sorta di Roadmap per il futuro dell’Unione, nel quale si prospettavano le quattro unioni da realizzare progressivamente: bancaria, fiscale, economica e politica. L’unione bancaria, che già da tempo si era rivelata necessaria, è così finalmente decollata a livello europeo. Il progetto dell’unione bancaria comprende tre principali obbiettivi: l’istituzione di un potere di vigilanza sovranazionale, perché le grandi banche sono attive contemporaneamente in più Paesi; un meccanismo condiviso per intervenire in caso di default di una o più banche; una garanzia comune sui depositi bancari. Ad oggi, la vigilanza sovranazionale è stata completata e il meccanismo di risoluzione delle crisi bancarie è partito, seppure incompleto, mentre sul meccanismo europeo dei depositi manca ancora l’accordo. Questo ritardo lascia i sistemi bancari nazionali ancora esposti al rischio di instabilità e può produrre conseguenze negative per le banche, per i risparmiatori e per lo sviluppo dell’economia e del mercato unico.

Marco Si sente spesso ripetere che responsabile dell’alto tasso di disoccupazione e della mancata crescita è proprio l’Europa. Sono giustificate queste accuse contro l’Unione europea?

Aps Non si deve pensare né che l’Europa non abbia fatto nulla per superare la crisi né che essa possa fare tutto. Delle misure adottate dall’Unione abbiamo appena parlato. La difesa della moneta europea è stata un successo e le misure per indurre i Paesi con alto debito e con alto deficit ad adottare politiche di rientro nella normalità sono obbiettivi importanti: non perché lo prescrive un Trattato ma perché un Paese che si indebita fuori misura mette a rischio il proprio futuro e carica sulle spalle dei giovani un peso troppo alto; e perché i debiti vanno pagati e – pur dovendosi tenere ben presente il principio di solidarietà, sul quale torneremo – non è giusto che siano i contribuenti di Paesi con i conti in ordine a dover sanare costantemente le carenze di Paesi troppo indebitati. Tuttavia, se per riavviare la crescita e combattere la disoccupazione occorrono investimenti pubblici massici, proprio i Paesi fortemente indebitati hanno le mani legate perché gli spazi di manovra per incrementi di spesa pubblica su questi fronti sono ridottissimi.

Marco È qui che l’Europa dovrebbe intervenire?

Aps Sì. E non lo ha fatto in misura adeguata. Nel 2010 Tommaso Padoa-Schioppa aveva espresso in modo breve e pregnante una strategia per contrastare la crisi con efficacia: “il risanamento spetta agli Stati, l’Europa intervenga per la crescita”. Su questo fronte l’Unione è stata caren te. Solo con la Commissione uscita dalle elezioni europee del 2014 è stato promosso, per iniziativa del Presidente Juncker, un piano che ha portato alla creazione del Fon do europeo per gli investimenti strategici (Feis) – per il triennio 2015-2018 sono previsti 315 miliardi di euro, che arriveranno a 500 miliardi entro il 2020 – ed ha permesso di raccogliere capitali per investimenti già attivati per 335 miliardi di euro (Juncker, Discorso sullo stato dell’UE, 12 settembre 2018). Per l’Italia sono stanziati dal Piano 8 miliardi, che con l’apporto degli investitori incentivati dalle garanzie europee potrebbero arrivare a ben 50 miliardi.

Con questi soldi si sta facendo molto, ma questo ancora non basta. Ed agire sarebbe possibile, in quanto l’Unione non soltanto potrebbe avvalersi di nuove risorse proprie ma non avendo sin qui neppure un euro di debito potrebbe inoltre, mantenendo il bilancio in condizioni di sicurezza, emettere quote di bonds destinate ad investimenti. Ma non si tratta solo di spendere più soldi per la crescita. Il grande punto di forza economico dell’Unione europea, che è il mercato unico, andrebbe completato nei servizi, soprattutto i servizi a rete, e nella creazione di un autentico mercato unico per i servizi digitali. Così si potrebbero mobilita re ingenti investimenti privati e creare posti di lavoro nei campi delle nuove tecnologie.

Marco Come si spiega questa carenza di visione, questa miopia dell’Unione europea che ha impedito di uscire prima – e meglio – dalla crisi dell’ultimo decennio?

Aps Come spesso accade nelle cose umane, si è trattato di un deficit prima di tutto culturale. È prevalsa in questi anni una dottrina dell’economia che ha le sue radici nella Germania di Weimar e che tuttora domina la condotta dei governi tedeschi. È la dottrina della “casa in ordine”, per la quale la condizione necessaria e sufficiente perché vi sia uno stabile ordine internazionale, tale da evitare crisi di sistema anche sul terreno della finanza, è che ogni Stato assicuri l’equilibrio del proprio bilancio. È un’illusione parallela a quella che nell’Ottocento aveva indotto a ritenere che la guerra sarebbe stata scongiurata in Europa il giorno in cui vi fosse stata la coincidenza di Stato e Nazione.

In pari tempo, si è accreditata con enorme successo la tesi per la quale la politica migliore è di lasciare la mano libera al mercato perché è il mercato che conosce meglio le condizioni dell’economia e che è in grado, da solo, di autocorreggersi; l’intervento pubblico non sarebbe dunque né necessario né opportuno. Questa impostazione da circa un quarantennio, dagli anni di Ronald Reagan e di Margaret Thatcher, è la dottrina dominante, teorizzata da intellettuali autorevoli, quali l’influente scuola di Chicago già dominata da Milton Friedman. In realtà, proprio la crisi recente ha dimostrato che per contrastare le crisi più gravi, che sempre possono tornare a verificarsi, occorrono strumenti diversi. Il mercato non sempre si autocorregge, anche perché è la vittima di ondate speculative da esso stesso prodotte.

Marco E allora quali sono i rimedi contro questi fallimenti dei mercati?

Aps Bisogna considerare due elementi: se è vero che il mercato può funzionare solo entro un perimetro di regole perché non è una condizione di natura ma una creazione dell’economia e in definitiva della politica, occorre però in pari tempo lasciare alla politica – al livello al quale sia necessario od opportuno inervenire, dunque per l’Unione al livello sovranazionale – un effettivo potere di governo, un potere fiscale ed anche uno spazio di discrezionalità e di intervento che il mercato, pur se disciplinato da regole, non è in grado di assicurare, soprattutto quando si deve fronteggiare una crisi. Del resto, la grande crisi degli anni Trenta è stata vinta da Roosevelt anche con una politica lungimirante di investimenti pubblici. L’Unione europea questo non lo ha fatto, comunque non in misura sufficiente, non al livello giusto. E i risultati sono stati negativi. È la conseguenza di quella carenza di un governo federale dell’economia della quale già abbiamo parlato.

Crisi migratorie ed Europa[modifica]

Marco Io avverto, ancor prima della preoccupazione per l’economia, un forte senso di insicurezza, anzi spesso addirittura di paura e di ostilità per la presenza di una minoranza di immigrati extraed intracomunitari nel nostro Paese. Ed anche di questa situazione si sente spesso imputare la responsabilità all’Europa: che non ci difende, non ci aiuta, non interviene. È esatto questo?

Aps Il tema delle immigrazioni è diventato in questi ultimi anni cruciale in tutti i Paesi dell’Unione. In Italia ancor più che altrove. Vorrei anzitutto delineare in sintesi qualche elemento di informazione, desunto dalle statistiche dell’Istat. Gli stranieri presenti in Italia nel 2018 ammontano a 5.144.440, pari all’8,5% della popolazione italiana. Di essi, il 51% proviene dall’Europa, in massima pare dai Paesi dell’Unione. Dall’Africa proviene il 21%, dall’Asia il 20,5%, dalle Americhe il 7%. Gli uomini immigrati sono meno delle donne e i musulmani sono meno di un terzo del totale. Chi proviene da un altro Stato dell’Unione ha, in virtù dei trattati europei, libero diritto di circolazione; per i restanti immigrati, si distinguono tre categorie: coloro che hanno un regolare permesso di soggiorno; coloro che sono entrati chiedendo il diritto d’asilo e lo status di rifugiato, previsto dai trattati per chi viene perseguitato nel paese d’origine (Convenzione di Ginevra del 1951); e infine gli immigrati irregolari, cioè coloro che sono entrati illecitamente senza dichiararsi rifugiati, coloro per i quali è scaduto il permesso di soggiorno, ma soprattutto coloro che hanno vista respinta la domanda di asilo in quanto non provenienti da Paesi considerati persecutori.

Questa categoria dei migranti irregolari conta attualmente in Italia circa 500.000 individui; nel 2003 erano 250.000 in più rispetto ad oggi. Per loro è prevista l’espulsione, ma questa misura è di difficilissima esecuzione ed anche molto costosa: è stato calcolato che ammonta a circa 4.000 euro a persona, anche perché gli individui da espellere dovrebbero nel frattempo venire reperiti entro il territorio. Invece i richiedenti asilo vengono allocati in apposite strutture, in attesa degli accertamenti sull’identità e sulla provenienza, con procedure che richiedono mesi e spesso anni, con elevati costi di mantenimento. Questi dati sull’identità e sulla provenienza spessissimo sono mancanti o fittizi, perché anche i migranti per motivi economici tendono a dichiararsi perseguitati politici per ottenere il diritto d’asilo, pur provenendo in realtà da Paesi non persecutori. Tutto ciò dà un’idea delle difficoltà e dei costi legati a queste situazioni.

Marco La tesi dei partiti “populisti” è che bisogna chiudere le frontiere e respingere ogni ulteriore ingresso di migranti in Italia. Sarebbe pensabile ipotizzare una chiusura rigida alle immigrazioni?

Aps Occorre avere ben chiaro un punto fondamentale. Non solo l’Italia, ma l’intera Europa hanno un vitale bisogno di immigrati (da alcuni calcoli risulta che ne occorrerebbe almeno un milione all’anno in Europa e probabilmente anche di più) per contrastare la crisi demografica: stiamo diventando una popolazione di anziani, con pochi giovani e con una quota insufficiente di persone in età di lavoro; questo potrà avere conseguenze insostenibili, sia per i lavoratori attivi che per i pensionati di domani. Una quota adeguata e ben regolata di immigrati – i quali tra l’altro hanno un tasso di nascite più alto del nostro – è indispensabile già oggi e lo sarà anche in futuro per la nostra economia e per il nostro benessere.

Marco Riguardo al tasso di natalità, quanto gioca il fenomeno migratorio?

Aps Conta molto. Gli immigrati, per ragioni di cultura ed anche per il sollievo di essere sfuggiti a situazioni spesso tragiche di persecuzione e di miseria, hanno generalmente una tendenza assai più accentuata a mettere al mondo dei figli.

Marco Tuttavia il flusso di immigrati in Italia continua a destare preoccupazione, allarme, reazioni.

Aps Anche su questo bisogna anzitutto conoscere i dati reali. Vi è stato nel 2015 un picco nelle immigrazioni in Europa e anche in Italia, causato in larga misura dalla guerra in Siria. L’accordo dell’Unione europea con la Turchia, lautamente ricompensata per questo, ha quasi arrestato questo flusso nel Mediterraneo orientale. Gli sbarchi in Italia, prevalentemente dalla Libia che funge da ponte per le regioni a sud del Sahel, sono scesi da 181.000 nel 2016 a 119.000 nel 2017 e a 17.000 nei primi sei mesi del 2018, con un calo dell’ordine dell’80%. Diciamo la verità: oggi questa attenzione ossessiva per poche centinaia di migranti in attesa di ingresso nei nostri porti è solo un pretesto. È un fenomeno mediatico deplorevole, utilizzato da alcuni politici a fini demagogici, purtroppo con successo. Il vero problema non è attualmente quello degli ingressi bensì quello della gestione degli immigrati già presenti in Italia. Dal momento che l’espulsione di centinaia di migliaia di migranti è inattuabile, occorre mettere in atto politiche di integrazione attiva più efficaci.

Marco All’inizio io parlavo di insicurezza e di ostilità verso gli immigrati: come fare fronte a queste paure, che hanno una radice profonda?

Aps Queste paure vanno capite e vanno affrontate, non certo eluse né disprezzate. Occorre farlo procedendo su più fronti: il fronte dei flussi di immigrati; il fronte della loro distribuzione sul territorio europeo; il fronte della loro integrazione nel mercato del lavoro; il fronte della loro formazione civica; e va aggiunto anche il fronte di un’adeguata formazione dei cittadini italiani ed europei, perché circolano non solo notizie inesatte sui numeri, ma virus ideologici molto pericolosi, che condannano in blocco alcune minoranze straniere, a cominciare dai musulmani; una deriva che può sboccare nel razzismo. Su questi diversi fronti, accanto a politiche adeguate dei singoli Paesi europei, è indispensabile una serie di politiche comuni dell’Unione, che sinora è mancata quasi totalmente. Occorre anche disporre di un circuito informativo corretto, perché i sondaggi confermano che il tasso di immigrazione percepito è ben tre volte quello dell’immigrazione reale, gli italiani credono che gli immigrati costituiscano il 25% della popolazione, non l’8,5% che è il dato reale.

Marco La fonte di molte paure non è forse la lontananza culturale, l’estraneità di lingua e di modi e stili di vita familiare degli immigrati rispetto alla popolazione locale?

Aps La lontananza culturale c’è, è innegabile. Ma diven ta pericolosa solo quando crea conflitti con la popolazione locale. Ed è inaccettabile solo quando si concreta in comportamenti – anche interni alle famiglie immigrate – che contrastano con i principi del nostro diritto e della nostra Costituzione: chi viene in Europa deve accettare le nostre Carte dei diritti, le nostre Costituzioni nazionali, che oggi trovano la sintesi nella Carta europea. Su questo non si può e non si deve transigere.

Marco Sono anche gli atti di violenza a suscitare reazioni. E ancor più la minaccia del terrorismo.

Aps Sì, i media mettono in evidenza i reati commessi da stranieri, ingenerando anche qui percezioni non sempre corrispondenti alla realtà; il che nulla toglie naturalmente alla gravità di tali comportamenti. Quanto al terrorismo islamico, terrificante nelle sue manifestazioni sanguinose contro innocenti, due sono le vie per contrastarlo, complementari tra loro: da un lato gli immigrati musulmani vanno integrati socialmente e culturalmente e non confinati in ghetti come purtroppo fuori d’Italia è accaduto spesso; d’altro lato è indispensabile una condivisione a livello europeo dei dati di intelligence, perché il terrorismo è internazionale; ed anche questo sinora non è avvenuto, comunque non in misura sufficiente, perché ogni polizia tende ad essere gelosa delle proprie banche dati. Inoltre va consideato il fatto che nella maggior parte dei casi le terribili stragi terroristiche sono state opera di individui di cittadinana europea – in Inghilterra, in Belgio, in Francia – spesso immigrati di seconda generazione, già allievi delle scuole del loro Paese di appartenenza. Questo fa capire come sia difficile combattere il rischio.

Marco Molti sono convinti che la malavita sia in gran parte opera di immigrati.

Aps Quanto alla malavita, certo essa va combattuta senza quartiere. Ma non dimentichiamo che quella di gran lunga più diffusa e più pericolosa nel nostro Paese è la malavita delle nostre quattro mafie. Le meritorie denunce di associazioni come Libera e l’azione di magistrati coraggiosi quali Gratteri ed altri, ampiamente note, sono inequivocabili. Decine di magistrati hanno pagato negli scorsi decenni con la vita il loro impegno contro la criminalità mafiosa. Eppure ancor oggi l’Italia è inquinata capillarmente, anche al Nord, dalle mafie per così dire domestiche, anzitutto dalla mafia calabra della Ndrangheta. È un virus mortale per la società civile e per l’economia.

Marco Qualche giorno fa dovevo recarmi in un ambulatorio del Servizio sanitario regionale e sono rimasto colpito per il fatto che la grande maggioranza dei pazienti in attesa era costituita da migranti. Avvertivo negli italiani presenti una forte reazione, anche se muta...

Aps Le percentuali di immigrati in Italia le abbiamo viste sopra. Se ci sono situazioni come quella che Lei ha descritta, questo si deve al modo non regolato di gestire i migranti sul territorio italiano. Una distribuzione diversa e più equilibrata, anche con riferimento all’istruzione scolastica e alla sanità, è possibile ed anzi necessaria. In altri Paesi dell’Unione questo già avviene. Accogliere gli immigrati non significa privarsi di ogni forma di regolamento, ovviamente senza discriminazioni sui diritti fondamentali. Se questo non avviene, la responsabilità è nostra e non dell’Europa, come invece si tende a far credere.

Marco L’Italia però si è anche dimostrata accogliente con i migranti; o sbaglio?

Aps l’Italia negli anni scorsi si è mossa con generosità, sia nel soccorso ai migranti in fuga dall’Africa, in particolare attraverso la Libia, sia nell’accoglienza sul territorio; e questi meriti, per una volta, ci sono stati riconosciuti: “l’Italia ha salvato l’onore dell’Europa”, ha dichiarato più volte il presidente della Commissione europea Juncker.

Marco Come si connette il fenomeno migratorio con la globalizzazione dell’economia a livello planetario?

Aps Alcuni grandi Paesi in via di sviluppo o di sviluppo recente – la Cina, l’India, il Sud est asiatico – producono molti beni tradizionali a costi talmente inferiori da rendere insostenibile la concorrenza, facendo perdere all’Europa milioni di posti di lavoro. Qui è intervenuta con efficacia e potrà ancora operare l’Organizzazione internazionale del commercio (WTO) – nella quel l’Unione europea ha un peso determinante – per ottenere condizioni tali, ad esempio sugli orari di lavoro e sul lavoro minorile, da ristabilire un livello adeguato di concorrenza, penalizzando chi non li rispetti, anche con misure di protezione doganale alle frontiere. L’Europa comunque dovrà e potrà riconvertirsi, anche a seguito della rivoluzione informatica, così da sviluppare non solo le tecnologie d’avanguardia del mondo di domani, ma anche per intervenire nel processo di crescita dei Paesi in via di sviluppo, il che comporta la creazione e/o la trasformazione di posti di lavoro. Nel corso non breve di questo processo, investire in Africa (come già sta facendo la Cina in misura impressionante) consentirà all’Europa, con la messa a punto di un grande Piano per lo sviluppo, di proseguire anche su fronti produttivi tradizionali, in pari tempo favorendo lo sviluppo economico di questo grande Continente e inducendo gli Africani a vivere nelle loro terre.

Marco Tuttavia ho letto che le previsioni prospettano numeri altissimi, più di un miliardo di nuovi nati in Nigeria nei prossimi decenni. L’Europa non potrà mai farvi fronte.

Aps Attenzione però. Già oggi la grande maggioranza dei migranti africani si sta spostando entro l’Africa stessa. Si stima che su 69 milioni di persone che vogliono migrare a livello planetario, quelli che puntano all’Europa sono meno di un decimo (Forum Villa Vigoni 2018). E potranno rimanere entro limiti ragionevoli se l’Europa attuerà in Africa le opportune politiche di investimento: vantaggiose per entrambi i continenti. È d’altra parte ben noto che quando un Paese sottosviluppato raggiunge un adeguato livello di benessere, il tasso di natalità decresce fortemente.

Marco Lei ha appena parlato di politiche dell’Europa per lo sviluppo dell’Africa. Ma ho letto in questi giorni che la Cina sta investendo 70 miliardi proprio in Africa. Ci sarà ancora spazio per l’Unione europea?

Aps È una domanda più che giustificata. La Cina sta conducendo ovunque una politica di affermazione economica e non solo economica impressionante per potenza di mezzi e determinazione. Per di più, si muove con assoluta sicurezza e rapidità senza i vincoli (chiamiamoli così) delle democrazie occidentali, che non solo hanno procedure decisionali più complesse proprio perché democratiche, ma non possono né debbono prescindere dal rispetto dei diritti umani, anche nei Paesi con i quali trattano.

Marco La partita allora è già perduta per l’Europa?

Aps Ritengo di no, per diverse ragioni. Anzitutto una serie di interventi articolati già esiste; rinvio per questo a un recente efficace documento di sintesi (Olimpia Fontana e Andrea Cofelice, La nuova alleanza tra Africa ed Europa, Centro Studi sul Federalismo, Marzo 2019), dal quale si vede non soltanto come il ventaglio delle iniziative europee sia ampio e come le procedure per gli investimenti siano davvero molto intricate ma percorribili e perfezionabili, ma anche come profondamente diverso sia l’approccio rispetto a quello dei Cinesi: l’Unione europea mira, giustamente, a intervenire nel quadro dell’Unione africana, in una prospettiva lungimirante di unione economica e politica dell’intero Continente, più che in una prospettiva bilaterale con i singoli Stati africani. Certo, la via è lunga, il più resta da fare, in questo l’Unione è ancora indietro. Ma ritengo che l’impostazione europea - di dimensioni continentali e in prospettiva federali e democratiche - abbia dalla sua valide carte da giocare con gli Africani.

Marco L’Europa è già intervenuta di fronte al fenomeno migratorio?

Aps Anche qui dobbiamo sfatare alcune false percezioni. Non è vero che l’Unione non ha fatto nulla. L’accordo di Schengen del 1990, in seguito entrato nei Trattati europei a partire dal 1997, oggi prevede un Codice frontiere che disciplina l’ingresso dei cittadini dei Paesi terzi, esterni rispetto all’Unione, stabilendo alcune condizioni e alcuni controlli disposti sulla base di regole uniformi. Inoltre, stabilisce l’impegno ad instaurare progressivamente un sistema integrato di gestione delle frontiere esterne, tramite l’istituzione, dapprima, di un’Agenzia comune (Frontex), quindi di una nuova Agenzia europea della guardia costiera e di frontiera (2016), peraltro ad oggi non ancora dotata delle necessarie risorse. Quanto al diritto d’asilo, una più recente riformulazione dell’Accordo di Dublino (Dublino III, 2013) ha confermato il criterio che assegna allo Stato di prima accoglienza il compito di esaminare la domanda di protezione, una procedura lunga e problematica come già abbiamo visto. Nel 2015 è stato adottato un piano temporaneo di emergenza, in coincidenza con il picco immigratorio che sappiamo. L’attuazione del piano è stata però affidata agli Stati dell’Unione solo su base volontaria ed è stata largamente inattuata, nonostante il fatto che la Corte di Giustizia europea abbia respinto nel febbraio 2017 un ricorso dei Paesi di Visegrad contro le decisioni del 2015. Ma il principio della distribuzione solo volontaria e non cogente dei migranti tra i Paesi dell’Unione è stato purtroppo ribadito nel vertice europeo del 27 giugno 2018.

Marco E allora come dovrebbe intervenire l’Europa in modo più efficace?

Aps Ciò che dovrebbe essere disciplinato al livello europeo è anzitutto il flusso delle immigrazioni. Occorre istituire una frontiera esterna all’Unione, regolata da una normativa comune non semplicemente volontaria ma obbligatoria. Occorrono regole comuni sui criteri di accoglienza. Secondo molti osservatori dovrebbe essere superata anche la distinzione tra il diritto d’asilo (per chi è discriminato o perseguitato nel proprio Paese d’origine) e chi fugge per ragioni di guerra o per ragioni di sussistenza, per carestia, per fame e per sete, rimodulando così la Convenzione di Ginevra del 1951. Occorrono valutazioni e regole uniformi sui nume ri accettabili, in termini di possibilità di occupazione, sulla base di dati obbiettivi forniti dai singoli Paesi. Occorrono interventi comuni per stabilire i criteri per l’accoglienza e per l’inserimento, da effettuare nei Paesi d’origine ma anche in quelli di transito, oltre che naturalmente nei Paesi europei di primo ingresso. E ci vogliono le risorse per farlo. Alla Commissione europea vanno conferiti i poteri esecutivi necessari. Infine, dopo un certo periodo di residenza stabile e al termine di un adeguato processo di integrazione e di formazione civica si dovrebbe accordare agli immigrati il diritto di cittadinanza.

Marco I Paesi di accoglienza dei migranti quali compiti avrebbero?

Aps Ogni Paese dell’Unione dovrebbe programmare quanti immigrati possa ospitare, quanti posti di lavoro, e di che tipo, abbia la possibilità ed anzi la necessità di mettere sul mercato, destinandoli sia a lavoratori di altri Stati dell’Unione sia a immigrati extracomunitari. Naturalmente, occorre impedire che la domanda di immigrati sia dovuta al minor costo di una mano d’opera sfruttata, sottopagata, assunta con lavoro nero, perché questo determina un’ingiusta discriminazione a danno di chi offre un lavoro regolare e di chi non è disposto al lavoro nero. Questo non è un rischio teorico, è una drammatica realtà, specie in Italia. Va detto inoltre – questo viene spesso taciuto anche se tutti lo sanno – che ci sono lavori per i quali in Italia (e non solo...) una mano d’opera disponibile non c’è, o è insufficiente, perché non sono lavori graditi. Si pensi alle badanti, a certi lavori agricoli, ai servizi di pulizia o di ristorazione. Guai se non avessimo gli immigrati!

Marco Per gli immigrati regolari, però, come si fa a permettere che ciascuno vada dove vuole, se le esigenze dei diversi Paesi dell’Unione sono diverse?

Aps Infatti questo non dovrebbe essere possibile, almeno nella prima collocazione dei migranti entro l’Unione. E in parte lo è già: i migranti regolari ammessi in un Paese dell’Unione non possono per cinque anni spostarsi in un altro Paese dell’Unione. Come fare? Si potrebbe anche operare con incentivi e disincentivi: se tu sei stato ammesso nell’Unione in un certo Paese, sulla base della programmazione di quel Paese, non potrai usufruire della copertura sanitaria se non all’interno dei quel Paese. Solo in seguito potrai spostarti rispondendo a un’offerta di lavoro di un altro Paese. Ovviamente la situazione è diversa per gli intracomunitari, a condizione che non ci siano abusi, come pure è avvenuto.

Marco Mi sembra importante modificare la regola che impone al primo Stato dell’Unione nel quale sono arrivati i migranti richiedenti l’asilo di provvedere alla loro accoglienza. Questo penalizza evidentemente l’Italia, data la nostra posizione geografica.

Aps Certamente. Occorre modificare il regolamento di Dublino del 1990 che ha sancito questa regola, ormai inaccettabile: bisogna riconoscere che chi entra in un qualsiasi Paese dell’Unione entra in Europa, ogni frontiera nazionale di ingressi di extracomunitari deve essere considerata come frontiera europea. Il Parlamento Europeo ha già votato un progetto di riforma del Regolamento di Dublino, allo scopo di stabilire un’equa ripartizione europea dei migranti. Ma anche questa misura trova l’ostacolo del Consiglio degli Stati membri, che non decide, anche perché paralizzato dal potere di veto.

Marco Questi impegni non saranno esorbitanti rispetto alle risorse disponibili? Dove si possono reperire le risorse?

Aps Bisogna che il bilancio dell’Unione cresca, come diremo parlando della politica economica dell’Unione, attraverso la messa a punto di un vasto programma di sviluppo sostenibile che avvantaggi contestualmente sia l’Europa che l’Africa. Va aggiunto che occorrerà anche mettere a punto tecnologie nuove, ad esempio per lo stoccaggio e il trasporto di energia solare dall’Africa. I costi di elettrificazione e di estrazione di acqua per l’intera Africa sono stati calcolati e risultano affrontabili in un arco non ampio di anni, con costi sicuramente alla portata dell’Unione europea. Come vedremo meglio, il bilancio dell’Unione dovrà necessariamente essere potenziato. Progetti ed opere di questa portata, tecnicamente molto avanzate ma anche vulnerabili, andrebbero difese e garantite, ai fini della sicurezza, con apparati anche militari adeguati, che potrebbero venire gestiti dall’Unione africana – l’embrione di una futura unione del Continente, sul modello dell’Unione europea – ed anche dall’Onu, con il supporto finanziario e operativo dell’Unione europea.

Marco Oggi questo non avviene?

Aps No, tutto questo oggi non avviene. Non si è capito, da parte dei governi – o meglio, non si è voluto capire – che coordinare non significa governare. Per di più, neppure questo coordinamento è avvenuto in misura adeguata, perché il metodo intergovernativo si fonda sull’unanimità, si blocca se c’è un veto e taglia fuori il Parlamento europeo. Al livello europeo il fenomeno migratorio va gestito con regole comuni e va governato, non semplicemente coordinato. La crisi attuale, non ancora risolta, è anche il frutto di questo errore.

Difesa e sicurezza[modifica]

Marco Nel Mediterraneo meridionale c’è la guerra e anche dove non c’è, la pace è ad alto rischio: dalla Siria all’Iran all’Egitto alla Libia, per non parlare della crisi apparentemente senza vie d’uscita nei rapporti tra Israele e il popolo palestinese. E poi c’è la crisi dell’Ucraina. Tutto questo ci riguarda, avviene ai nostri confini, eppure non sembra che l’Europa abbia voce in capitolo. La fonte della nostra insicurezza non è anche qui?

Aps Certamente, è così. Per la prima volta dopo decenni, oggi anche in Europa la pace è a rischio. Non nel senso che vi sia la minaccia di una guerra interna tra i Paesi dell’Unione, come è avvenuto costantemente in passato e due volte con conseguenze terribili nel corso del Novecento; ma perché quando ai confini ci sono guerre o minacce di guerra, il contagio può avvenire anche senza aver voluto la guerra. L’anomalia che si è verificata per decenni e che non è stata sanata è questa: la sicurezza dell’Europa, la sua difesa militare dalle possibili minacce esterne sono affidate a una potenza, amica e alleata, che ci ha consentito la salvezza dal nazismo: gli Stati Uniti, naturalmente. Questa protezione era necessaria al termine della seconda guerra mondiale, anche per difendere l’Europa dalla minaccia dell’Unione sovietica. Tuttavia se l’alleanza con la grande potenza amica d’oltre Atlantico è tuttora naturale per l’Europa, la dipendenza dagli USA ai fini della nostra sicurezza alla lunga non è più ammissibile come condizione permanente.

Ogni comunità politica deve provvedere alla propria sicurezza senza dipendere da altri, anche se le alleanze sono possibili ed auspicabili. La struttura in grado di provvedere alla propria difesa oggi per i nostri popoli non può essere se non l’Unione europea, nella forma di una vera unione federale. I singoli stati nazionali non hanno la dimensione necessaria per farlo. Vorrei dire di più: un popolo che non è in grado di provvedere alla propria sicurezza, prima o poi rischia di perdere anche la propria libertà. La storia è piena di esempi del genere, da millenni.

Marco Dovremmo spendere di più per costruire una vera difesa europea?

Aps È stato dimostrato, cifre alla mano, che se si gestis se in comune la spesa odierna per la difesa dei 27 Paesi dell’Unione (esclusa la Gran Bretagna), l’efficacia militare sarebbe di gran lunga maggiore (The Cost of non Europe in Security and Defense, Parlamento europeo 2017). Naturalmente, una difesa autonoma richiederebbe investimenti ulteriori, che tuttavia (come dimostra l’esempio degli USA) avrebbero ricadute importantissime anche sulle tecnologie non militari e sulla stessa ricerca scientifica.

Marco Non mi è chiaro se difesa europea vorrebbe dire smantellamento degli eserciti nazionali, che sarebbero sostituiti da un esercito europeo.

Aps La creazione di una difesa europea, necessaria per le ragioni che abbiamo detto, verrebbe realizzata progressivamente e non comporterebbe, quanto meno per un periodo non breve, l’abolizione delle forze militari nazionali. Queste rimarrebbero, ma da una parte la standardizzazione degli armamenti le renderà molto meno costose, d’altra parte e soprattutto vi saranno corpi militari gestiti al livello europeo, sia per difesa sia per missioni di pace: peace enforcing, peace keeping, rispettivamente per costringere alla pace tra belligeranti o per mantenere la pace stipulata in territori già in guerra. Un tale doppio livello – nazionale ed europeo – può sembrare contraddittorio; ma sembra l’unico possibile. L’esempio che si può richiamare è quello degli Stati Uniti, dove i due livelli militari – quello degli Stati e quello della Federazione – sono rimasti in vita per buona parte dell’Ottocento (Domenico Moro, 2018).

Per l’Unione europea potrà applicarsi il principio di sussidiarietà, del quale parleremo: si ricorrerà al livello europeo solo quando necessario. Inoltre, si dovrà prevedere che il livello federale possa in caso di necessità, con le dovute garanzie di legittimazione democratica, utilizzare anche le forze militari nazionali, per scongiurare minacce esterne o atti di guerra di un singolo Stato membro verso altri: anche qui va considerato il modello americano. D’altra parte, è chiaro che non può esistere in un regime di democrazia un esercito non sottoposto all’autorità politica, e ciò vuol dire che lo stato maggiore per la difesa e l’esercito europeo agiranno sotto il controllo del Consiglio europeo e del Parlamento europeo.

Marco Il giudizio che si deve dare sulla passata politica dell’Unione riguardo alla difesa comune e alla sicurezza mi sembra dunque sostanzialmente negativo.

Aps Sì, perché questo aspetto cruciale della sicurezza dei cittadini europei avrebbe dovuto venire affrontato da anni, anzi da decenni, e non rimanere bloccato dopo la bocciatura della Comunità europea di difesa (Ced) nel remoto 1954. Tuttavia l’orizzonte ha mostrato proprio in questi ultimi due anni segni di schiarita molto promettenti. Qualcosa si è mosso. La politica di Trump, critica verso l’Unione europea, ha contribuito in misura sostanziale a questa svolta. Si è finalmente manifestata la volontà politica di dotarsi di strumenti comuni per le missioni di pace e per la standardizzazione degli armamenti. Sia in Germania sia in Francia si è espressamente auspicata la creazione di un esercito europeo. Le dichiarazioni recentissime di Emmanuel Macron e di Angela Merkel (novembre 2018) sono molto esplicite, entrambi hanno parlato della necessita di creare un “esercito europeo”, non nell’intento di contrapporsi agli Stati Uniti ma col proposito di acquistare autonomia nella gestione della propria sicurezza e difesa. Questo non era mai più accaduto da sessant’anni. L’11 dicembre 2017 il Consiglio europeo ha deciso di attivare una Cooperazione strutturata permanente (Pesco) per promuovere la difesa e la sicurezza comune. A sua volta, il Parlamento europeo ha approvato il 3 luglio 2018 un Programma europeo di sviluppo del settore industriale della difesa (Edidp). Oggi l’insieme delle risorse, di diversa origine, destinate dall’Unione a questi scopi è vicina ai 10 miliardi di euro (Domenico Moro, 2018). Ancora troppo poco, certamente, ma la via sembra finalmente riaperta. I sistemi satellitari europei Galileo e Copernico renderebbero autonoma l’Unione su questo fronte cruciale per la sicurezza.

Marco A queste funzioni militari dovranno prendere parte tutti gli Stati dell’Unione?

Aps Non necessariamente. Il Trattato di Lisbona prevede una formula (detta cooperazione strutturata) che permette a un gruppo anche ristretto di Paesi di organizzare tra loro forme di integrazione sul terreno della difesa. Le forze europee saranno formate da militari di quei Paesi dell’Unione che lo vorranno; proprio negli ultimi mesi si sono compiuti importanti passi avanti in questa direzione: i governi di Germania, Francia, Italia, Spagna ed altri Paesi dell’Unione hanno espresso l’impegno di avanzare su questo terreno, sul quale l’Europa potrà svolgere un ruolo importantissimo anche a livello internazionale e mondiale. Desidero aggiungere che sarebbe grave se l’Italia si tirasse indietro su questo fronte, magari cedendo alle pressioni di chi oggi sembra voler indebolire e dividere l’Unione europea: mi riferisco agli Usa, alla Russia e alla stessa Cina. L’Italia potrebbe essere l’anello debole, per chi avesse questi propositi.

Marco Lei ha parlato di una funzione internazionale di una futura forza di difesa europea. Ma la pace mondiale non dovrebbe essere garantita dalle Nazioni Unite?

Aps Certo, le Nazioni Unite (Onu) sono il tentativo più ambizioso, mai prima intrapreso nella storia a questo livello, di creare una struttura globale in grado di garantire la pace. L’Onu ha al suo attivo successi innegabili, sia sul piano dei diritti umani che attraverso le tante missioni di pace. Ma è tuttora carente di poteri adeguati. L’Unione europea ha invece lo scopo di unire con un vincolo federale gli stati del nostro continente, garantendo in modo permanente la pace interna all’Europa. Costituisce un modello per gli altri Continenti e, se unita politicamente, potrà dare all’Onu un supporto fondamentale. La forza militare dell’Unione potrebbe diventare uno strumento operativo di ordine e di pace proprio nella cornice dell’Onu. Perché l’idea di un’Europa politica ha sin dall’origine una chiara vocazione cosmopolitica.