Aps-V Luci e ombre d’Europa

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Carta dei diritti, sovranità, democrazia, sussidiarietà[modifica]

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Marco Lei ha parlato di principi che stanno alla base dell’edificio (pardon: della cattedrale) dell’Unione europea. Come si possono enunciare in breve?

Aps La Carta dei diritti dell’Unione europea del 2000 li ripartisce in sei capitoli, intitolati rispettivamente così: dignità, libertà, uguaglianza, solidarietà, cittadinanza, giustizia. Proclamare la dignità della persona, di ogni persona umana è un portato della profonda tradizione cristiana dell’Europa. I diritti di libertà – la libertà personale dagli atti arbitrari del potere, le libertà di pensiero, di associazione, di religione – sono un portato della moderna cultura dell’Europa; ma vi rientrano anche le quattro libertà che stanno alla base dell’unione economica, cioè la libera circolazione delle persone, delle merci, dei servizi e dei capitali. Il principio dell’uguaglianza dei diritti e delle opportunità è a sua volta il risultato della storia moderna, dalla fine del Settecento al Novecento. E così pure le esigenze di rispetto dei principi di giustizia anche sociale e non solo personale e collettiva. La cittadinanza europea esprime la dimensione dei diritti politici dell’Unione. E la solidarietà a sua volta indica e prescrive l’obbiettivo di raggiungere una dimensione non solo economica dell’Unione stessa, così da creare condizioni progressivamente meno squilibrate tra le regioni d’Europa, come abbiamo visto sopra parlando delle politiche di “coesione”. Sono principi fondamentali che la Carta dei diritti dovrebbe garantire e dei quali oggi il Parlamento europeo sta discutendo l’implementazione.[1]

Marco Tra le quattro libertà previste dai trattati dell’Unione figura anche la libera circolazione dei capitali. La nostra interlocutrice virtuale Elena, menzionata all’inizio, obietterebbe che è proprio questa libera circolazione dei capitali a provocare disastri come quelli che abbiamo sperimentato in questi ultimi anni con la crisi della finanza.

Aps Anzitutto non si deve dimenticare che la crescita sostenibile dell’economia, essenziale per lo sviluppo, richiede come componente fondamentale l’apporto di investimenti privati anche dall’estero e verso l’estero, che solo la libera circolazione dei capitali può assicurare. Tuttavia è certamente vero che i rischi ci sono stati e ci sono tuttora, i danni gravi li abbiamo sperimentati. E allora deve essere chiaro che la libera circolazione dei capitali non comporta una licenza indiscriminata di fare ciò che si vuole, per chi ha capitali da investire o vuole spostarli. Tanto meno si deve credere che il mercato, anche il mercato dei capitali, sia sempre capace di autocorreggersi, come invece si è creduto e si crede da parte di molti nel mondo dell’economia ed anche nell’accademia: lo abbiamo già detto.

Anche per la finanza occorre predisporre un perimetro di regole e riuscire a farle rispettare con gli strumenti di governo che includono un margine di potere discrezionale. Il tema è complesso, perché la finanza oggi sposta con facilità anche grandi capitali in tempi strettissimi. Tuttavia le regole ci sono e altre regole andranno indubbiamente messe a punto. Ad esempio occorre un’armonizzazione fiscale tra i Paesi dell’Unione, così che non si possa più alterare, come è invece avvenuto, la concorrenza tra imprese favorendo in modo non corretto un flusso di capitali dall’estero, attira ti da un’imposta sugli utili eccessivamente ridotta. E così pure occorre intervenire sulla trasparenza delle transazioni, sull’abuso di posizioni dominanti come pure sui possibili abusi delle multinazionali. Faccio notare però, una volta di più, che sinora il rispetto delle regole nei confronti delle multinazionali è stato possibile soltanto in quanto l’Unione europea è intervenuta con i poteri necessari di cui dispone. I singoli Stati dell’Unione non hanno la forza sufficiente per farlo. E questo vale, naturalmente, anche nella disciplina dei capitali all’interno dell’Unione.

Marco Può allora completare l’elenco dei principi fondamentali dell’Unione?

Aps Mi limito a richiamarne due, chiaramente espressi nei trattati, oltre che presenti nella stessa Carta dei diritti. Il primo è il principio di democrazia, che naturalmente può concretarsi in forme costituzionali diverse (parlamentari o presidenziali, con leggi elettorali ispirate alla proporzionalità o invece al ballottaggio, con collegi uninominali ovvero con liste nazionali e così via), tutte democraticamente legittime perché fondate sul suffragio universale, cioè sulla sovranità del popolo; inoltre l’Unione prevede anche forme di democrazia diretta.
Questo potrà avvenire attraverso la raccolta di firme (almeno un milione in almeno sette Paesi dell’Unione) che sollecitino le istituzioni europee a varare provvedimenti ritenuti necessari, entro la cornice dei trattati; una procedura non semplice, non priva di difetti, che potrà utilmente venire ripensata e resa più agevole, più funzionale.

Marco Lei ha parlato di democrazia diretta. Oggi si sente spesso ripetere che questa è la sola forma corretta di democrazia, perché solo così si esprimerebbe davvero “la volontà del popolo”. Lei pensa che questo sia vero? E come si deve porre la questione per l’Europa?

Aps Il tema è tra i più discussi oggi in tutto l’Occidente, a fronte della crisi evidente delle democrazie rappresentative. Non possiamo approfondirlo qui, mi limito a un brevissimo accenno. Io penso che il modello della democrazia rappresentativa vada ripensato, corretto anzitutto attraverso un diverso modo di formazione e di informazione dell’opinione pubblica, ma non vada abolito. Chi oggi la critica, non può fare poi a meno di andare al potere con l’elezione di propri rappresentanti in parlamento. Asserire che ogni questione politica, grande o piccola che sia, deve venire sottoposta al “popolo” attraverso la rete telematica è facile, può piacere. Ma è illusorio per diversi ordini di ragione, almeno tre.
In primo luogo perché chi risponde è una piccola minoranza della popolazione (si pensi alla cd. Piattaforma Rousseau dei Cinque stelle, oltretutto gravemente mancante di trasparenza). Aggiungo che non meno fuorviante è dichiarare che per il fatto di aver conseguito una maggioranza elettorale (relativa o assoluta che sia), ogni atto del governo è un atto del popolo sovrano: guai a cadere nel rischio della “dittatura della maggioranza”, guai a dimenticare che la democrazia consiste non solo nel voto popolare ma nell’equilibrio tra i poteri. In secondo luogo perché molte questioni per venire impostate correttamente richiedono un livello di conoscenza tecnica che un cittadino normale, anche se attento alle scelte della politica, non può assolutamente possedere. In terzo luogo perché la risposta dipende in larga misura dal modo nel quale viene posta la domanda, e questo è vero anche per i referendum. Esistono questioni per le quali interpellare direttamente l’opinione pubblica è giusto, perché ogni cittadino è in grado di esprimere consapevolmente il suo parere, così ad esempio su temi come il divorzio o l’aborto o la difesa dell’ambiente e del territorio. Ma su molte altre questioni questo non è possibile. Ed anche sulle prime, tutto dipende sia da come è formulata la domanda, sia dalle specifiche formulazioni che si daranno poi alla risposta dei cittadini interpellati. Questo conferma che la democrazia diretta non va esclusa, ma che la democrazia rappresentativa, certo da migliorare e riformare, non è comunque sostituibile.

Marco Se è vero che la democrazia rappresenta un principio fondamentale dell’Unione europea, esistono strumenti per tutelarla nel caso in cui in un Paese europeo essa venga compromessa?

Aps Sì. Non solo per quanto riguarda la democrazia, ma in generale per la tutela degli altri diritti fondamentali che stanno alla base dell’Unione europea - dignità, libertà, uguaglianza, Stato di diritto, rispetto dei diritti umani (art. 2 Tue e Carta dei diritti) - l’art. 7 del Trattato sull’Unione europea prevede che in caso di violazione di essi da parte di uno Stato dell’UE il Consiglio europeo, previa approvazione della Commissione e del Parlamento europeo, possa decidere di sospendere nei suoi confronti alcuni dei diritti previsti dal Trattato, compresi i diritti di voto del governo dello Stato in questione. È una misura grave, che sinora non è stata applicata, ma abbiamo già visto come il Parlamento europeo si sia pronunciato nel settembre del 2018 nei confronti delle violazioni avvenute in Ungheria. Vorrei aggiungere che questo strumento previsto dai Trattati sarà, nel caso deprecato in cui debba venire applicato, tanto più efficace quanto più l’Unione avrà peso non solo sulla base delle sue attribuzioni attuali ma perché in grado di esercitare un efficace potere di governo sovranazionale, con l’impiego delle necessarie risorse anche economiche. I rischi per gli Stati inadempienti sul terreno dei diritti e della democrazia diverrebbero ancora più gravi e di conseguenza il potere dissuasivo dell’Unione sarebbe ancora più stringente.

Marco Lei ha parlato di due principi fondamentali per l’Unione: accanto a quello della democrazia, quale è l’altro principio?

Aps L’altro è il principio di sussidiarietà, che impone di affidare all’Unione soltanto le questioni e le esigenze che, entro la cornice delle competenze dell’Unione stabilite dai trattati, possono venire affrontate e risolte in modo adeguato al livello europeo e non al livello nazionale; quando una questione è risolubile al livello nazionale, questo deve prevalere. La ragione che sta alla base della sussidiarietà è che le decisioni politiche vanno assunte preferibilmente al livello più vicino alla vita concreta del cittadino, dunque al livello inferiore possibile, il più vicino alla fonte stessa della sovranità che è l’individuo. Perciò, a seconda delle materie, dal comune, dalla regione, dallo Stato nazionale, dall’Unione europea, dalle organizzazioni internazionali, anzitutto le Nazioni Unite.

Marco Ma come si fa a stabilire quale sia il livello giusto della sussidiarietà, volta per volta?

Aps Vi sono anzitutto alcune competenze che i Trattati riservano al solo livello europeo. Sono le poche competenze esclusive dell’Unione, di cui abbiamo parlato: in particolare le regole sulla concorrenza, sul commercio internazionale e sull’unione monetaria. Il mercato unico non potrebbe funzionare in presenza di una pluralità di normative nazionali su queste materie. Molte altre competenze dell’Unione, anch’esse previste dai trattati, sono le competenze dette “concorrenti”, in quanto su di esse possono intervenire con leggi e regolamenti sia i singoli Stati membri che l’Unione. Là dove l’Unione adotta regolamenti o direttive proprie, queste prevalgono sulle leggi nazionali. Ma se uno Stato o anche altri soggetti imputano all’Unione di aver ecceduto violando il principio di sussidiarietà, possono opporsi e fare intervenire la stessa Corte di giustizia. La scelta di regolare una certa materia o di affidare una decisione di competenza concorrente all’Unione è naturalmente una scelta politica, affidata agli organi dell’Unione, alla Commissione, ai Consigli e al Parlamento europeo.

Marco Oggi è davvero applicato il principio di sussidiarietà?

Aps Il principio di sussidiarietà – che, lo ripeto, è fondamentale nella prospettiva di una struttura federale – è ben lungi dall’essere applicato coerentemente. Dovrebbe operare in entrambe le direzioni, sia verso il basso che verso l’alto, a seconda dei casi, mentre oggi l’attenzione è rivolta in prevalenza ad evitare un eccesso di regolamentazione europea più che nella direzione inversa. Ci sono scelte che chiaramente imporrebbero di ricorrere al livello superiore mentre questo non avviene, a cominciare dai beni pubblici europei (energie alternative, tecnologie di avanguardia, intelligenza artificiale, politiche ambientali ed altre), dalla sicurezza alla difesa di cui abbiamo già parlato. Molto resta da fare per attuare coerentemente questo principio.

Marco Gestire al livello europeo e non più solo al livello nazionale queste politiche vuol dire riconoscere all’Unione una propria sovranità. Ma la sovranità non è una prerogativa dello Stato-nazione?

Aps L’idea che la sovranità sia un attributo esclusivo dello Stato-nazione è ancora oggi condivisa da molti, anche al livello della teoria politica e giuridica. Ma è un’idea sbagliata per ragioni storiche, teoriche e fattuali. Storicamente, la dottrina dell’identità tra popolo, nazione e stato è recente, risale alla cultura romantica del primo Ottocento ed è in seguito degenerata nel Novecento sino alle due guerre mondiali. Prima d’allora “patria”, ”nazione” e “stato” costituivano entità distinte. In linea di principio, la moderna teoria politica – da Rousseau in poi, ma le radici sono ben più antiche – ha ricondotto la sovranità al popolo, dunque a ciascuno dei suoi componenti, che la esercitano direttamente o più spesso nella forma della rappresentanza politica attraverso il voto. Infine, in linea di fatto già oggi gli Stati nazionali non sono più sovrani, perché su questioni decisive non hanno potere effettivo, in un mondo globale; e l’Unione europea costituisce la risposta a questo stato di fatto, è la condizione per recuperare una sovranità ormai perduta dagli Stati e irrecuperabile da loro in un mondo globale.

Per queste ragioni bisogna adottare una concezione diversa della sovranità: se sovrano è il popolo, cioè in definitiva l’individuo, questi la può esercitare a più livelli, a seconda delle materie e delle necessità individuali e collettive. Quanto alla dimensione territoriale, i livelli principali sono cinque: il comune (villaggio o città), la regione, lo stato nazionale, il continente (per noi l’Europa), il mondo. Si è cittadini (e sovrani) entro ciascuna di queste comunità. Il concetto monolitico di sovranità nazionale è dunque infondato.

Nazioni, Regioni, Europa: identità plurime e identità europea[modifica]

Marco Una delle ragioni di fondo dell’ostilità verso l’Europa mi sembra quella che fa leva su un altro timore, che sento evocare spesso: il timore che con l’unione si sia costretti ad uniformarsi ad un unico modello, sacrificando le identità nazionali, rinunciando ad essere italiani o francesi o spagnoli e così via.

Aps Le maggiori opposizioni al progetto di unione federale sono venute proprio da questi timori: sin dall’origine e poi sempre di nuovo. Bisogna allora vedere se essi hanno un vero fondamento. E la risposta è no.

Marco Perché no?

Aps Per una ragione che in breve esprimerei così. Le identità nazionali sono il frutto di una storia culturale e politica di secoli se non addirittura di millenni. In taluni casi lo Stato si è formato prima della nazione, come ad esempio in Francia e in Inghilterra a partire dal medioevo, mentre in altri casi la nazione è nata prima dello Stato, come è avvenuto in Italia e in Germania, dove la “nazione” della cultura e delle consuetudini ha preceduto di secoli l’unificazione politica. Comunque un’identità nazionale esiste oggi, in ogni Stato-nazione d’Europa. È una componente essenziale della nostra identità collettiva. Ma va chiarito che lo scopo dell’Unione europea non è – non è mai stato – di annullare le identità nazionali, bensì di mettere in comune ciò che ci unisce nei nostri valori e ciò che è utile gestire insieme a difesa e a promozione dei nostri interessi. Nulla più di questo e nulla di meno di questo. Di qui è nato il mercato unico, di qui è nata la Carta europea dei diritti, di qui nasce l’idea di una difesa comune.

Marco Ma è vero quello che si sente ripetere, che cioè l’unione politica dell’Europa non sarà mai possibile nella forma di uno Stato federale perché mancherebbe un “comune sentire”, la coscienza di una comune appartenenza, l’esistenza stessa di un popolo europeo, di un demos europeo?

Aps Neppure questa obiezione è fondata. Per tre ragioni. La prima sta nel fatto che per decidere e per agire in comune non occorre pensarla allo stesso modo su tutto; occorre semplicemente avere la convenienza o addirittura la necessità di darsi gli strumenti per risolvere problemi comuni, che non sarebbero altrimenti risolvibili: questo vale per un condominio come per una nazione; e vale anche per l’Europa quanto ai temi e agli obbiettivi, già richiamati sopra, che i singoli Stati europei non sono (o non sono più) in grado di affrontare isolatamente.

La seconda ragione è che, a differenza di quanto spesso si dice, alcuni importanti valori in comune i diversi Paesi europei li hanno già ora. Esiste un modello europeo di stato sociale – sanità, previdenza, misure di contrasto alla disoccupazione, scuola pubblica, finanziati con risorse pubbliche – diverso nei nostri diversi Paesi ma lontano, ad esempio, dal modello statunitense. Esiste negli europei un’avversione di fondo alla guerra, sia tra i paesi entro l’Unione (portiamo in noi la memoria ben viva delle nostre profonde cicatrici) sia quale strumento utilizzabile per promuovere le democrazie nel mondo, come è risultato chiaro ad esempio al tempo della guerra all’Irak e non solo. Esiste una visione cosmopolitica del mondo di oggi e di domani, che ha radici culturali risalenti alla Grecia, al medioevo e all’età illuministica; anche l’idea dello “stato di diritto”, della rule of law è all’origine un’idea europea. E potremmo continuare.

Marco E la terza ragione?

Aps La terza ragione è questa. Si è constatato, attraverso ripetuti sondaggi anche molto recenti, che la distanza di opinioni all’interno di ogni singolo Paese dell’Unione europea è maggiore rispetto alla differenza di opinione riscontrabile su un campione rappresentativo della popolazione complessiva dei diversi stati: italiani, tedeschi, francesi, spagnoli non siamo così diversi come può sembrare.

Marco Altri però riguardo alle identità collettive esprimono una posizione in certo senso opposta rispetto ai sovranisti. Si oppongono non all’idea di Europa ma proprio allo Stato nazionale, rivendicando le identità storiche e attuali delle regioni. Dunque si oppongono anche all’Unione europea di oggi, in quanto fondata in larga misura sui governi e sugli Stati nazionali. Cosa c’è di vero in questa posizione?

Aps Il punto fondamentale è questo: ognuno di noi porta in sé più appartenenze, più identità, più modelli di vita, di gusti, di tradizioni e di comportamenti. Ciascuno di essi è per lo più compatibile con gli altri. In particolare, se si pensa alla dimensione del territorio, ognuno di noi è ad un tempo cittadino del suo villaggio o della sua città; cittadino della sua regione; cittadino del suo Paese; cittadino europeo; e cittadino del mondo. Sono identità distinte e complementari, ciascuna delle quali si coglie meglio se vista dall’esterno: un abitante di Siena quando è nella sua città si sente anzitutto “contradaiolo”, membro attivo del proprio quartiere; quando è a Firenze si sente senese; quando è a Milano o a Napoli si sente toscano; quando è a Londra si sente italiano; quando è a San Francisco o a Pechino si sente europeo.

Marco Ma allora perché questa insistenza di molti sull’identità regionale?

Aps Una ragione c’è. L’identità regionale è fortissima, perché è il frutto di una storia di secoli. Non solo la lingua, non solo i dialetti, non solo la pronuncia locale della lingua del Paese, ben riconoscibile perché diversa persino tra città vicine della medesima regione; ma addirittura il carattere delle persone è mediamente diverso. Non è certo un caso se quando noi vogliamo descrivere a qualcuno il carattere di una persona che l’interlocutore non conosce, spessissimo ci limitiamo a richiamare la sua appartenenza ad una regione: “sai, lui è siciliano”; “devi capire, è piemontese”; e così via. E l’interlocutore capisce (o crede di capire) qualcosa di più... Lo stesso vale per la Francia (un bretone è ben diverso da un provenzale, non solo nel linguaggio), per la Germania, per la Spagna; e così via. Il che non elimina affatto gli elementi di identità nazionale, difetti inclusi, naturalmente.

Marco Dunque, nonostante questa forte realtà storica e attuale delle regioni, l’idea di eliminare gli Stati e sostituirli con le regioni va respinta?

Aps A mio avviso sì. Per tre motivi. Primo. Gli Stati sono ancora un pilastro fondamentale non solo della vita collettiva e della politica ma anche dei rapporti internazionali, dell’equilibrio (o squilibrio) delle forze in Europa; la stessa Unione europea è nata e vive nella forma di una unione di Stati; la Francia o la Germania (e non solo loro) non accetterebbero mai di dissolversi nelle rispettive regioni storiche. Secondo. Non esistono solo le regioni storiche ma anche le regioni che per la loro collocazione geografica ed economica presentano aspetti di profonda affinità: si pensi alle regioni alpine d’Italia, Francia, Austria; o alle regioni europee con forti estensioni forestali; o alle coste e alle isole che prosperano di risorse marine e di turismo. L’Europa può (e in parte già lo fa) mettere in atto politiche di sostegno specifiche per ciascuna di queste, che sono transnazionali e che non coincidono con le regioni storiche. Terzo. La spinta di alcune macroaree regionali a diventare Stati non solo trascura gli elementi di unità nazionale che la storia di secoli ha creato, ma darebbe vita a micro-stati all’interno dei quali si riprodurrebbero le spinte autonomiste. La formula politica del federalismo permette di far convivere senza conflitti questi diversi livelli.

Marco Tuttavia la richiesta di molte regioni europee di ottenere una maggiore autonomia, o addirittura l’indipendenza, resta ben viva. Quale dovrebbe essere su questo fronte il ruolo dell’Europa?

Aps Sulla pretesa dell’indipendenza politica la risposta non può che essere negativa, per le ragioni già espresse: sarebbe una nuova forma di nazionalismo, con gli inconvenienti e i rischi che conosciamo bene e che la storia conferma. Invece le richieste di autonomia sono senz’altro legittime. Si deve tenere presente che entro l’Unione europea esistono, in conformità delle rispettive costituzioni nazionali, modelli molto diversi sull’ordinamento delle regioni. In Spagna l’autonomia delle regioni storiche è alta, e non solo per la Catalogna. In Germania i Länder hanno vasti poteri, a cominciare dalla Baviera, ed esiste una seconda Camera, il Bundesrat, che li rappresenta a livello nazionale. In Italia le regioni hanno anche un potere legislativo, ulteriormente esteso con la riforma costituzionale del 2001; e ci sono le regioni alle quali la nostra Costituzione ha garantito – sulla base di ragioni storiche peculiari per ciascuna di esse – un regime di statuto speciale (Sicilia, Sardegna, Val d’Aosta, Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia), che include tra l’altro un regime fiscale più vantaggioso. La Francia invece ha mantenuto un centralismo molto più accentuato, erede del modello napoleonico. Anche il livello di efficienza delle amministrazioni regionali è ben diverso nei diversi paesi.

Marco Cosa allora dovrebbe fare l’Unione?

Aps Il principio di base è che deve spettare ad ogni Stato nazionale di stabilire nella propria Costituzione quale livello di autonomia attribuire alle proprie regioni. Un’Europa federale può funzionare bene senza la necessità che il regime costituzionale interno dei diversi Paesi debba essere uniforme. Questo vale anche per i comuni e le città metropolitane. Il che non toglie nulla all’esigenza a mio parere sana e positiva di attribuire autonomia alle regioni. A due condizioni però: che venga lasciato un margine sufficiente di competenze e di risorse allo Stato, tale da rendere possibile un livello uniforme di prestazioni di base (istruzione, sanità, trasporti, tutela dell’ambiente ed altri beni pubblici) sull’intero territorio nazionale, anche per le regioni meno ricche; e che non si crei una babele di normative discordanti, ad esempio sulla sanità o sul turismo o sulle imprese o sulla formazione scolastica: perché questo rischio (un rischio molto concreto, almeno in Italia...) produce conseguenze negative per la tutela della salute, per l’eguaglianza di trattamento tra i cittadini e per gli investimenti.

Il pluralismo religioso ed etnico[modifica]

Marco Accanto alle identità locali e regionali, ci sono però anche le diverse identità religiose; si può farle convivere?

Aps Certamente. Anzi, anche all’interno di una medesima religione, scopriamo “anime” diverse. Il cristianesimo ne ha conosciute in duemila anni moltissime, tra loro profondamente differenziate pur nella costante condivisione di principio dei valori di fondo enunciati nei Vangeli. Valori e precetti che peraltro la storia religiosa e civile d’Europa ha per tanti secoli contraddetto in misura impressionante: basti richiamare alla memoria le feroci persecuzioni anti-eretiche, le Crociate, l’Inquisizione, le guerre di religione, l’intolleranza per ogni opinione non coincidente con l’ortodossia stabilita dai Concili e dalla Chiesa di Roma.

Marco Davvero le diversità religiose sono compatibili?

Aps Sono, le diversità, un vero tesoro, un valore da apprezzare, sia tra le religioni storiche sia entro la medesima religione: quanto profondamente diversa, ad esempio, la spiritualità di ciascun ordine monastico! E così pure, quante diverse declinazioni culturali, religiose e civili entro la storia dell’Islam! Oggi finalmente abbiamo compreso che tutte possono convivere, entro una cornice di mutua accettazione, nel rispetto dei principi di libertà garantiti dalle Costituzioni. Uno dei più grandi uomini della storia del Novecento, il Mahatma Gandhi, lo ha detto e testimoniato in modo mirabile. Ma ci sono voluti secoli di storia e di grandi sofferenze per giungere a questo riconoscimento, ancora molto parziale e imperfetto.

Marco Vi è poi la questione, che mi sembra molto seria, della compatibilità delle diverse etnie entro i singoli Stati ed entro l’Unione europea. I musulmani, i cinesi, gli africani potranno mai integrarsi davvero con i popoli dei Paesi europei nei quali vivono?

Aps La questione è seria e grave. Va detto che essa riguarda anzitutto i singoli Stati europei, entro ciascuno dei quali da decenni vivono e lavorano milioni di individui provenienti da Paesi di altri Continenti. La tradizione di etnie differenti entro un medesimo ordinamento è molto antica, ha conosciuto assetti differenti nel tempo, in particolare nel medioevo, sui quali non posso soffermarmi. Nel quadro delle moderne costituzioni democratiche, il principio di base mi pare si possa esprimere così: la convivenza pacifica di etnie dotate di tradizioni e di elementi identitari specifici – ad esempio nella lingua quotidiana, nel regime della famiglia, nei rapporti sociali, nella religione – è possibile purché esista e venga rispettato da tutti un insieme di elementi comuni. Essi includono la lingua del Paese, l’educazione civica, l’istruzione di base e i diritti fondamentali dell’individuo e delle associazioni di persone, garantiti dalle Costituzioni nazionali.

Marco E che fare con le etnie che sono presenti in molti Stati europei e che chiedono di essere tutelate?

Aps Sardi, corsi, catalani, baschi, e non solo... E poi le altre minoranze etniche presenti in molti stati: gli ungheresi in Romania, gli istriani in Croazia, i turchi in Germania, gli algerini in Francia, i cinesi in Italia e altrove; per non parlare dei gallesi e degli scozzesi. Anche su questo fronte, come su quello delle appartenenze religiose e confessionali che spesso si incrociano con queste etnie minoritarie, la via corretta è quella di consentire il massimo di autonomia – anche giuridica – compatibile con i principi e con i diritti stabiliti dalle costituzioni nazionali. Già oggi e da tempo, ad esempio in Spagna, sono ammesse consuetudini differenti nelle diverse regioni in campo familiare, nelle successioni e persino nei contratti. E poi si deve considerare che anche all’interno delle regioni spesso esistono etnie minoritarie che vanno anch’esse tutelate. La soluzione drastica della “pulizia etnica” è una cruda realtà storica, vecchia di secoli, anzi di millenni. Una realtà purtroppo anche recente e recentissima, tanto negli altri Continenti quanto nella stessa Europa: si pensi alle tragiche vicende che sono seguite alla dissoluzione della Jugoslavia. La via dell’unione fondata sul federalismo – che assicura ad un tempo l’unione politica e l’autonomia in un rapporto di coordinamento concordato – è la sola alternativa valida.

Marco I seguaci della religione islamica possono convivere pacificamente con i popoli cristiani?

Aps Ritengo di sì. Lo affermo sulla base di diverse ragioni: perché questo sul terreno religioso è già avvenuto in molte fasi della storia, ad esempio nella Spagna del secolo XI, ma anche altrove; perché questo avviene anche oggi in molti Stati a maggioranza islamica fuori d’Europa (certo non in tutti, lo sappiamo bene); e perché nella stessa Europa – in Germania, in Francia, in Italia e altrove – la stragrande maggioranza dei musulmani immigrati convive con la popolazione locale senza traumi particolari; e là dove essi hanno acquisito la cittadinanza del Paese europeo nei quali si sono insediati, partecipano regolarmente alla vita democratica. Con questo non voglio certo negare che il problema esista: c’è una lunga e risalente tradizione islamica di ostilità verso le altre religioni e in particolare verso il cristianesimo.

Marco L’islam ha l’idea che una guerra di religione possa essere non solo legittima ma addirittura doverosa?

Aps L’idea della Jihad (la guerra santa) sta nel Corano, anche se in forma non così netta e priva di alternative come viene spesso presentata. Questa tradizione è ancora ben viva in molte parti del pianeta. È appena il caso di rammentare che l’Europa stessa non ne è certo stata immune. Le Crociate del medioevo, come pure la distruzione delle civiltà e delle religioni precolombiane sono lì a dimostrarlo. L’intolleranza religiosa verso i non cristiani, a cominciare dagli ebrei, si è tradotta per secoli in persecuzioni sanguinose. Il principio della libertà religiosa l’Europa della cultura illuministica lo ha fatto proprio solo da due secoli e mezzo; e la Chiesa ancora più recentemente, alla metà del Novecento, con il secondo Concilio Vaticano. Ricordo questi precedenti per dire che la libertà religiosa è un principio fondamentale, del quale ogni Stato europeo e l’Unione europea debbono garantire il rispetto, anche da parte dei musulmani. È una conquista ormai irreversibile.

Marco Ma i principi di libertà e di democrazia che prospettive hanno nei Paesi islamici autoritari?

Aps Su entrambi questi versanti in molti Paesi islamici, come anche in altri Paesi di diverse tradizioni e religioni, il cammino da percorrere è ancora lungo e irto di ostacoli. Non potrà venire imposto dall’esterno, tanto meno con le armi. Una spinta fondamentale potrà venire dalla componente femminile di questi Paesi: le donne avranno, ritengo, un ruolo determinante nel rendere possibile la transizione contrastando la violenza, l’autoritarismo e la discriminazione, dunque lottando (pacificamente) per la libertà e per la democrazia.

Tesori della civiltà europea[modifica]

Marco Noi europei tendiamo a considerarci come gli eredi della più evoluta civiltà del pianeta. Tendiamo (o almeno così è stato, mi sembra) a ritenere che al confronto della civiltà europea – della quale quella degli Stati Uniti è figlia – le altre civiltà, incluse quelle nobili e antiche della Cina e dell’India, inclusa quella dell’Islam classico, siano comunque inferiori. A me non pare che questo atteggiamento sia giustificato. Lei cosa ne pensa?

Aps Concordo con Lei, Marco. Ogni civiltà ha il suo valore, i propri “carismi”, e il mondo umano è bello anche per questa grande varietà di esperienze e di culture. Anche le civiltà cosiddette primitive, per quel tanto o quel poco che ancora ne resta, presentano aspetti di sorprendente valore attuale: nell’arte, nel rispetto della natura, nei rapporti tra individui, persino nella sfera religiosa. Gli studi su queste civiltà, fioriti soprattutto nel corso del Novecento e per merito di studiosi in gran parte europei, lo hanno mostrato con chiarezza. Aggiungo che uno dei meriti della cultura europea è anche quello di avere sviluppato i criteri di metodo storico con i quali si sta a poco a poco ricostruendo con rigore, sulla base delle fonti, la storia di ciascuna delle altre civiltà del pianeta, dalla Cina all’India, dalle Americhe all’Islam; incluse, naturalmente, le civiltà antiche dell’Oriente mediterraneo, dalla Mesopotamia all’Egitto, sulle quali oggi sappiamo infinitamente di più rispetto al passato.

Marco Se però volessimo richiamare in breve qualche titolo di merito della civiltà europea, come potremmo farlo? E prima ancora: esiste una civiltà europea o ci sono essenzialmente civiltà nazionali?

Aps Sulla risposta alla seconda domanda non ho dubbi. Ho dedicato la mia vita di studioso alla storia del diritto e posso dire con sicurezza che esiste una civiltà del diritto che è europea, non nel senso della uniformità (perché ogni Stato, ogni nazione, ogni città ha avuto aspetti suoi propri), ma nel senso che ci sono caratteri comuni e una ininterrotta circolazione di modelli, di idee, di esperienze. Le tre radici del pensiero e dell’arte della Grecia antica, del diritto di Roma e del Cristianesimo sono ben vive in tutta la storia d’Europa degli ultimi duemila anni. Ma questo vale anche in molti altri campi: pensiamo allo stile romanico e poi allo stile gotico delle chiese dei secoli dall’XI al XV, dall’Inghilterra alla Sicilia, dalla Penisola iberica alla Germania e all’Europa dell’Est; pensiamo ai generi e agli stili della musica; pensiamo ai modelli letterari e poetici; pensiamo agli sviluppi delle scienze e della medicina, dal Seicento al Novecento. L’interscambio è stato continuo all’interno dell’Europa, anche se ogni paese, spesso ogni regione ha sviluppato e declinato in modo originale modelli comuni, in particolare nelle arti. E i “primati”, le epoche d’oro sono venute in momenti e in secoli diversi nei diversi paesi: dall’Italia medievale e rinascimentale alla Spagna del Cinquecento, dai Paesi Bassi alla Francia del Seicento, dall’Inghilterra moderna alla Germania dell’Ottocento, e così per altri Paesi. Unità e diversità sono due aspetti connessi e inscindibili della civiltà europea.

Marco La storia culturale e civile europea può allora essere considerata come la storia di una civiltà comune?

Aps Sì, questo è vero nelle arti, nella musica, nel diritto, nella filosofia, nelle scienze. Il romanico e il gotico, l’arte del Rinascimento, lo stile barocco, il neoclassicismo, il romanticismo, sono correnti artistiche fiorite in regioni e paesi diversi ma diffuse e declinate, in modi diversi, nell’intera Europa. Il feudalesimo, la rivoluzione comunale, la nuova scienza del diritto nata con le università dei secoli XII e XIII; l’umanesimo, l’assolutismo politico, il giusnaturalismo, il moderno costituzionalismo, le codificazioni ottocentesche, il positivismo sono fasi storiche che ritroviamo nell’intera Europa, inclusa l’Inghilterra.

Marco Anche se è sbagliato fare paragoni tra civiltà, esistono comunque tesori della cultura europea dei quali possiamo essere fieri, non perché autori di essi ma perché eredi di chi li ha creati?

Aps I tesori della civiltà europea – una civiltà comune, lo ripeto, pur nelle differenze – sono straordinari: in ogni campo del sapere. Questo è vero per l’età medievale, per l’età moderna e per l’età contemporanea. Non solo i sommi autori della pittura, della scultura, dell’architettura, della musica, ma i grandi della teologia, della filosofia, della matematica, della medicina, delle scienze della natura, della fisica, della chimica, del diritto, dell’economia, della storiografia sono in gran parte autori europei: dal medioevo al Novecento. E la civiltà della Grecia classica, che ha posto le basi del pensiero razionale ma anche dell’arte e della poesia, è un fondamento essenziale della civiltà europea, rivisitata e valorizzata ad ogni generazione, perché costituisce un tesoro “per sempre”, come Tucidide auspicava per la sua Storia.

Sorprende che opere immortali – si pensi a Dante Alighieri o a Giotto, a Michelangelo o a Molière, a Shakespeare o a Rembrandt, a Bach o a Mozart o a Beethoven, ma i nomi sono centinaia, – sono nate in contesti sociali e politici lontani tra loro e lontanissimi dal nostro presente; eppure sono tesori vivi per il mondo intero, per individui di tempi e di civiltà anche molto lontane dalla nostra; e tali resteranno nel futuro. Questo vale naturalmente sia per le scienze umane che per le scienze fisiche, biologiche, naturali, per la medicina, per la psicologia e per tutte le altre scienze. Vorrei ricordare, ad esempio, che non solo le teorie di Galileo, di Newton e degli altri grandi della scienza moderna dal Seicento all’Ottocento ma anche le due massime scoperte della fisica contemporanea, la teoria della relatività e la teoria dei quanti, sono scoperte europee del primo Novecento. La massima parte dei più grandi matematici, dal Cinquecento al Novecento, è costituita da francesi, inglesi, tedeschi, italiani, scandinavi, svizzeri e di altri Paesi europei. I tesori della cultura europea, oggi patrimonio della cultura dell’intero pianeta, sono davvero incommensurabili. E l’Italia nel corso dei secoli ha contribuito in misura altissima, determinante alla creazione di questo patrimonio.

Responsabilità, errori ed orrori della storia d’Europa[modifica]

Marco La storia d’Europa è ricca dei tesori che Lei ha appena evocato, certamente. E so che se glielo chiedessi, Lei su questo terreno resterebbe a lungo. Ma questa storia è anche responsabile di errori, di pesanti ingiustizie, direi anche di veri e propri orrori. Non so se possiamo porci come modello per civiltà diverse e lontane, che spesso gli europei hanno ignorato o addirittura soffocato e spento.

Aps Questo è sicuramente vero. Guai a negarlo, guai a dimenticarlo, guai a sottovalutarlo. Guerre intestine quasi senza tregua tra gli Stati europei, feroci persecuzioni religiose ed etniche, lotta senza tregua contro le eresie, intolleranze culturali e civili all’interno d’Europa, in un arco di quasi venti secoli. Guerre di conquista sulla sponda orientale del Mediterraneo con le Crociate; devastazioni anche nell’orbita della Cristianità, ad esempio con il selvaggio assalto dei crociati a Costantinopoli nel 1204, distruttivo di tesori irrecuperabili della cultura antica ancora conservati nella capitale dell’Impero d’Oriente. E poi, soprattutto, il dominio esteso dal Cinquecento al Novecento sull’intero pianeta, attraverso la colonizzazione degli altri Continenti: in Africa, nelle due Americhe, in India, in Indonesia, in Australia. L’intero pianeta è stato per secoli terra di conquista da parte degli Stati europei, oggetto di sfruttamento, di dominio politico, religioso e culturale, senza rispetto per le tradizioni ancora vive di culture nobili e antiche, pur se diversissime rispetto alla nostra civiltà.

Ci sono volute le due guerre mondiali del Novecento, scatenate dagli Stati europei, c’è voluto l’orrore senza paragoni dell’Olocausto perpetrato dal nazismo, ci sono volute le stragi di milioni di esseri umani operate dal comunismo sovietico – anch’esso un prodotto dell’Europa e della sua cultura – per porre fine, nell’arco di alcuni decenni del secondo Novecento, cioè appena ieri, ai domini coloniali e ai genocidi di matrice europea. Altri genocidi, non imputabili a noi, si sono frattanto ripetuti: in Africa, in Cina, in Indonesia, ma anche nell’ex Jugoslavia. Tutto questo non va mai dimenticato, quando proponiamo nuovi modelli di vita individuale e collettiva.

Marco Ho visto recentemente due film che mi hanno profondamente colpito. Il primo è un film tratto dal romanzo di Eric Remarque, All’Ovest niente di nuovo; il secondo è un documentario di Ermanno Olmi, I recuperanti, sui luoghi e sui residui terribili – cannoni, bombe inesplose, granate, grotte scavate nella montagna, centinaia di chilometri di trincee – risalenti agli anni della Prima guerra mondiale e ancora presenti, da un secolo, sulle nostre montagne alpine; mi sono sembrate ferite ancora aperte.

Aps Ha ragione. Questi film, insieme con altri documenti sono tristemente illuminanti. Oggi ci appare incomprensibile, assurdo, che i popoli europei si siano massacrati dal 1914 al 1918 in una guerra di trincea nella quale per conquistare pochi metri di un campo o di un territorio si mandavano a morte migliaia di uomini in un solo giorno. Povera e umile gente di ogni parte d’Europa, per la quale la guerra era inesplicabile, eppure accettata sino al sacrificio della vita come si accetta un flagello della natura. I morti della prima Guerra superano i 15 milioni di esseri umani! Le ideologie nazionaliste sbandierate allora ci suonano false, tragicamente funeste. Ecco perché il patto originario che sta alla base dell’Unione europea è molto chiaro, molto esplicito: mai più guerre, mai più stragi fratricide. Mai più!

Marco Oggi questo rischio in Europa sembra superato, a molti questo richiamo al valore della pace sembra inattuale.

Aps È un errore, che può avere esiti funesti. Il rischio sarà veramente superato, entro l’Europa, se e solo se l’Unione raggiungerà la fase della federazione, cioè l’unione politica, non prima. Non dimentichiamo che ancora nel 1913, pochi mesi prima dello scoppio della grande guerra, nessuno in Europa l’aveva prevista. Nessuno pensava che l’assetto di pace che il Continente conosceva da quasi mezzo secolo si sarebbe infranto nel corso di una settimana, scatenato da una singola pallottola sparata a Saraievo. Lo esprime bene il bellissimo libro autobiografico di Stefan Zweig, Il mondo di ieri, scritto nel pieno della seconda guerra mondiale, nel 1942.

Marco Come è possibile che nessuno l’avesse previsto? E chi si oppose alla guerra?

Aps Una parte non piccola delle élites europee era contraria alla guerra, anche in Italia (se si fossero interrogate le popolazioni, la contrarietà sarebbe stata schiacciante). Ma quando poi la guerra scoppiò, solo pochissimi intellettua li ebbero il coraggio di denunciarne l’orrore. Tra questi, il francese Romain Rolland, che nel 1914 pubblicò un pamphlet intitolato Al di sopra della mischia, venduto a decine di migliaia di copie ma attaccato aspramente dalla stampa come antipatriottico. Anni prima Rolland aveva scritto il grande romanzo Jean Christophe, incentrato sull’ideale di una intesa profonda tra Francia e Germania. Nel 1914 egli fu costretto, per un trentennio, a lasciare la Francia. Una sorta di incendio collettivo aveva acceso gli spiriti, un fenomeno diventato inarrestabile. Ecco perché è essenziale che si spieghi e si renda chiaro, soprattutto a voi giovani che non l’avete per vostra fortuna conosciuta, la terribile realtà della guerra. L’unione europea è nata ed è tuttora indissolubilmente legata ad un ideale di pace. Chi ignora questo – e sono tanti, oggi – non ha capito nulla dell’idea di unione europea. Quanto meno, non ha capito l’essenziale.

Marco Eppure ancora oggi si commemora la fine della guerra e la vittoria del 1918.

Aps Sì, è giusto commemorare i morti in guerra. Ed è giusto ricordare che molti giovani e non giovani hanno sacrificato la vita coscientemente. Per la seconda guerra è chiara la ragione che ha spinto alla resistenza attiva contro la barbarie nazista. Per la prima guerra è più difficile capire (come invece è necessario fare) che vi sono stati individui di alta cultura e moralità che hanno creduto in buona fede che la guerra fosse un modo per superare le ingiustizie e le ipocrisie di un’età borghese non priva di ombre. Ma nessuno di loro aveva previsto il massacro della guerra di trincea. Oggi sappiamo tutti che una futura guerra, magari scatenata per caso, potrebbe portare alla morte – nello spazio di ore o di minuti – miliardi di esseri umani. A parte questo scenario da Apocalisse, non dimentichiamo che ancora negli ultimi anni e decenni milioni di persone sono morte per atti di genocidio e di pulizia etnica. Anche ai confini d’Europa.

Marco Le tragedie più recenti ai confini dell’Unione europea si sarebbero potute evitare se l’Europa fosse stata presente e attiva come unione politica già nei decenni scorsi?

Aps In alcuni casi, quasi certamente sì. Pensiamo alla ex Jugoslavia: gli orrori della “pulizia etnica” che ha sacrificato intere popolazioni, sino a quel momento viventi pacificamente porta a porta, sarebbero stati impediti con la forza da un potere pubblico superiore. Pensiamo anche al Medio Oriente, dove non solo gli interessi ma anche i valori che condividiamo non hanno potuto affermarsi perché l’Europa non ha il peso che solo l’unione politica potrebbe darle. Si parla spesso di “costo della non Europa”: e questa formula vale non soltanto sul terreno dell’economia, per la quale sono stati più volte calcolati gli enormi vantaggi che avremmo a presentarci uniti quando si tratta di energia o di ricerca o di difesa, ma anche sul terreno dei rapporti internazionali. Voglio aggiungere che c’è di peggio: l’Europa (o piuttosto alcuni Stati dell’Unione, tra i quali anche l’Italia) portano una quota di responsabilità per aver contribuito a creare le condizioni per le quali si è determinato il flusso di milioni di migranti in fuga dai rispettivi paesi. Mi riferisco alla Libia, alla Siria, all’Irak, ma non solo. Un’Europa politicamen te unita e attiva avrebbe probabilmente agito in tutt’altro modo, nell’interesse di quei popoli e nel nostro interesse.

Marco Ma allora il bilancio storico dei rapporti tra l’Europa e il resto del mondo è solo negativo?

Aps Non penso questo. È vero, ci sono le responsabilità e le colpe, irrimediabili ormai, di cui abbiamo detto. La storia umana è una storia carica, sin dalla più remota antichità, di violenze terribili. Non è mai esistita un’età dell’oro, evocata in tanti miti europei. I genocidi, le deportazioni, le eliminazioni di popoli interi, la riduzione in schiavitù e servitù dei nemici vinti in guerra sono stati quasi sempre la regola, in ogni parte del pianeta, per millenni. E l’Europa non è stata da meno. Soltanto da pochissimi decenni si è cominciato a ritenere non solo eticamente ma anche politicamente inaccettabili queste pratiche millenarie nei rapporti tra popoli e tra Stati. Una parte non secondaria di merito nell’avvio di questa evoluzione si deve proprio all’Europa.

Marco Molti pensano che solo una fede attiva e condivisa di pace e di fraternità possa scongiurare le violenze e le stesse guerre. La nostra interlocutrice virtuale Luisa, che Lei ha nominato all’inizio, la pensa così. Il volontariato è un modo di agire molto rispettato e diffuso anche tra i giovani. Sembra lontano dalla dimensione politica e dunque anche dall’ideale europeo.

Aps Quando oggi vediamo tante migliaia di donne e di uomini che dedicano la vita o una parte della loro vita, gratuitamente e volontariamente, all’assistenza sanitaria, all’istruzione, al miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni più povere del pianeta, anzitutto in Africa ma non solo, e quando vediamo quanto sia alta la quota di europei in queste missioni, penso che possiamo dirci orgogliosi della nostra appartenenza al Vecchio mondo. È una dimensione essenziale della vita, la fraternità verso il prossimo, della quale le radici religiose e cristiane sono evidenti. Il che non comporta affatto la conseguenza di ritenere che questa dimensione sia sufficiente a scongiurare le tragedie della guerra. No, la pace può venire garantita solo con un regime di istituzioni che renda la guerra impossibile.

Marco Mi torna alla mente un carteggio tra Einstein e Freud avvenuto tra le due guerre (1932) in cui i due si interrogavano sulla guerra: entrambi giungevano alla conclusione che per estirpare la guerra, da una parte sono necessarie istituzioni federali e dall’altra occorre alimentare la pulsione di vita, o come preferiva chiamarla Freud di Eros, per contrastare quella di morte, Thanatos. Ma proprio la consapevolezza che nell’essere umano convivono queste due tensioni li indusse ad ammettere la necessità delle istituzioni e di un continuo sforzo di queste per educare la pulsione di Eros. Da una parte quindi la necessità di pedalare sempre per mantenere in equilibrio questa bicicletta (la civiltà) e dall’altra l’importanza di avere un orizzonte per continuare e non perdersi.

Aps È vero, questo carteggio tra due grandi della cultura è ancora molto attuale.

Caratteri originali della civiltà europea[modifica]

Marco È possibile riconoscere alla civiltà europea, nell’arco della sua storia passata e sino al presente, alcuni aspetti che la distinguono dalle altre civiltà?

Aps Ritengo di sì. A qualche aspetto ho già accennato, parlando dell’identità europea. Sul patrimonio immenso dell’arte, della cultura e delle scienze di matrice europea non occorre tornare: un patrimonio ormai aperto all’umanità intera di oggi e del futuro. Ma c’è anche altro. Mi limito a pochi punti. Il primo riguarda la distinzione tra la sfera spirituale e la sfera secolare, che ha la sua fonte nel passo evangelico “date a Cesare quel che è di Cesare, date a Dio quel che è di Dio”. Stato e Chiesa, istituzioni temporali e istituzioni religiose hanno convissuto in Europa per duemila anni con confini variabili, con sconfinamenti continui nelle due direzioni, con contrasti accesi e non di rado violenti. Ma rimane fermo il principio per il quale la sfera secolare dei rapporti temporali e la sfera spirituale della religione hanno ciascuna un proprio autonomo fondamento etico e istituzionale. Questo principio costituisce un pilastro, un carattere distintivo della civiltà europea, in questo diversa da civiltà come quelle (ad esempio) della Mesopotamia, dell’Egitto antico, di Israele, della Cina, dell’India, del Giappone, dell’Islam e della stessa Bisanzio: anche se, naturalmente, ciascuna di queste civiltà ha conosciuto e variamente disegnato, nei rispettivi poteri, la sfera religiosa e la sfera dei rapporti civili.

Marco Nell’Europa cristiana ci sono stati “travasi”, scambi tra le due sfere?

Aps Certamente. Vi è l’influenza che le istituzioni del mondo secolare hanno esercitato sull’organizzazione interna della Chiesa cattolica, a cominciare dalla sua struttura gerarchica (laici, sacerdoti, vescovi, pontefici), che ha chiari agganci con la struttura gerarchica del tardo impero romano, persino nei nomi. E così pure le istituzioni del feudalesimo. E in tempi molto più recenti, l’accettazione del principio della libertà religiosa, nato nella moderna cultura secolare e, nel Novecento, recepito anche dalla Chiesa. La “rivoluzione” illuminista è stato un movimento intellettuale grandioso, le cui radici sono molteplici, sia religiose che laiche. Ha messo radici l’idea che la realtà delle istituzioni umane e delle regole del diritto può essere riformata sulla base di principi razionali, condivisibili e condivisi. Rientra in questa prospettiva anche la dialettica moderna tra posizioni religiose e posizioni laiche in tema di divorzio e aborto, nonché la discussione sui temi oggi vivissimi della bioetica.

Marco E nella direzione inversa, la Chiesa ha influito sul terreno delle realtà secolari?

Aps Nella direzione inversa gli esempi sono innumerevoli. Non solo ha operato la Chiesa come istituzione bensì in primo luogo i valori del cristianesimo, espressi e trasmessi nei Vangeli. Uno di questi esempi consiste nel fenomeno complesso della “secolarizzazione”: il trasferimento di regole e istituzioni dall’àmbito della religione cristiana all’àmbito temporale. Basti menzionare i principi fondamentali della pari dignità di ogni persona umana, della solidarietà attiva, della tutela dei meno fortunati a carico della collettività, del potere come servizio: nati sul terreno religioso, essi sono stati recepiti, in modi e in gradi molto diversi nel tempo e nello spazio, dai poteri secolari e dagli Stati. E vi è anche la trasmissione di modelli del diritto canonico in quasi ogni campo dei diritti secolari, nel processo, nei contratti, nella gerarchia delle funzioni pubbliche, nel diritto penale.

Marco Può menzionare alcuni altri “caratteri originali” della civiltà europea?

Aps Ne richiamo alcuni, semplicemente enunciandoli, ma naturalmente questo capitolo meriterebbe ben altro spazio. Possiamo denominarli caratteri originali nel senso che sono nati in Europa, ma molti di essi si sono poi trasmessi ad altre parti del mondo, ad altri paesi e continenti e sono diventati patrimonio comune dell’umanità. Un esempio è costituito dalle Università quali strutture di formazione delle élites politiche ed economiche nelle quali l’insegnamento è impartito da chi abbia dimostrato la capacità di effettuare ricerche originali. Il principio della separazione/distinzione tra i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario, cardine del moderno Stato costituzionale, è un modello europeo che dall’Inghilterra del Seicento si è trasmesso all’Europa, agli Stati Uniti e poi a molti altri Stati extraeuropei. La dottrina dei diritti dell’uomo – diritti di libertà, diritti di protezione contro gli abusi del potere – ha anch’essa origini europee che dal medioevo si sviluppano sino alla Dichiarazione del 1789, ai Bills of Rights e alle moderne Costituzioni; e che dal 1948 figurano nella Carta dei diritti delle Nazioni Unite, con un raggio di diffusione e recepimento (quanto meno potenziale...) esteso così all’intero pianeta. Il principio della sovranità popolare, le istituzioni della democrazia rappresentativa, il suffragio universale sono anche questi modelli europei, accolti in forme diverse nel tempo e nello spazio ben al di là dell’Europa. Le riforme che hanno emancipato dal secondo Ottocento in poi il proletariato dall’oppressione e dalla miseria indotte dalla prima industrializzazione sono state una faticosa conquista dell’Europa, a partire dall’Inghilterra che della rivoluzione industriale era stata la matrice. Gli istituti della previdenza sociale si sono anch’essi affermati non solo in Europa. E così pure la creazione del welfare state, concepito da Lord Beveridge nel corso della seconda guerra mondiale e trasformatosi in seguito nel “modello sociale europeo”. Anche la grande rivoluzione che nel corso del Novecento e in questo secolo ha portato e sta portando progressivamente alla emancipazione femminile ha avuto in Europa la sua fonte prima.