Aps Storia dell'Unione europea

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Antonio Padoa-Schioppa
Document-pdf.svg Storia dell’Unione europea


Queste pagine costituiscono una versione semplificata del capitolo 40 (pp. 692-720) del volume di A. Padoa-Schioppa, Storia del diritto in Europa, Dal medioevo all’età contemporanea, Bologna, Il Mulino, 2016

Genesi[modifica]

Nella seconda metà del Novecento si è sviluppato in Europa un processo di unione economica e politica che costituisce l’elemento più significativo della storia recente del nostro continente. Questo processo, che è tuttora in corso, si è realizzato in larga misura con gli strumenti del diritto: sia con strumenti tradizionali sia con strumenti originali e con regole nuove.

L’Unione europea ha radici antiche dal punto di vista ideale e concettuale, ad alcune delle quali abbiamo avuto modo di accennare in precedenza. L’idea di un’entità superiore rispetto ai regni e agli stati si trova, con riferimento all’impero, nei giuristi del tardo medioevo e nel pensiero di Dante. L’idea di una confederazione europea è enunciata a più riprese: già nel Cinquecento con i progetti politici del re di Francia Enrico IV e nel Settecento nell’opera di Bernardin de Saint Pierre. L’ideale della “pace perpetua”, da realizzarsi con il superamento della sovranità degli stati, è stato espresso con mirabile lucidità da Immanuel Kant nel 1784 e nel 1795.

Il modello della Federazione americana, varato a Filadelfia nel 1784, ha ripetutamente attirato l’attenzione di chi, in Europa, immaginava un percorso atto a superare gli antagonismi e le guerre tra stati: tra gli altri, con particolare efficacia, lo scrittore Victor Hugo. Nell’Ottocento alcuni dei protagonisti del Risorgimento italiano ebbero chiaro l’obbiettivo dell’unione politica dell’Europa, che avrebbe un giorno coronato il processo di unificazione nazionale: basti rammentare il pensiero federalista di Carlo Cattaneo che auspicò la formazione degli Stati Uniti d’Europa e l’opera di Giuseppe Mazzini che fondò, accanto alla Giovane Italia, anche la Giovane Europa.

Ancora nell’Ottocento le relazioni internazionali si svolsero a lungo attraverso strumenti di cooperazione che per taluni aspetti si avvicinano al modello di una confederazione di stati. La Santa Alleanza operò in tale contesto a partire dal 1815 e sino al 1848. E più tardi, alla fine del secolo, il “concerto” delle grandi potenze – tutte europee: Inghilterra, Francia, Germania, Impero asburgico, Italia, Russia – suggerì appunto l’immagine di una confederazione di stati in divenire, con regole di concertazione che funzionarono solo quando l’accordo tra i governi risultava unanime. Lo scoppio della prima guerra mondiale e gli eventi successivi mostrarono ad evidenza la stridente disarmonia del “concerto” e la sua fragilità.

Tra le due guerre il tentativo più ambizioso di creare un nuovo ordine internazionale fu quello, già ricordato, della Società delle Nazioni. Non mancarono i tentativi di accordi interstatali in Europa – un importante progetto di unione fu avanzato dal politico francese Aristide Briand nel 1930 – e vi furono iniziative di mobilitazione dell’opinione pubblica, con la creazione di movimenti finalizzati all’unione politica del continente, come quello promosso da Coudenhove-Kalergi. Anche alcuni esponenti antifascisti, tra i quali Carlo Rosselli (1899-1937), preconizzarono l’unione del continente su base federale, che avrebbe dovuto seguire all’auspicata sconfitta dei regimi autoritari d’Italia, Germania e Spagna. Altre voci si levarono a sostegno di un’idea che circolava da secoli, ora ravvivata dalla tragedia della prima guerra: l’idea di una federazione europea. Il maggiore intellettuale italiano del Novecento, Benedetto Croce (1866-1952) – storico, filosofo, studioso di letteratura – chiudeva nel 1932 la sua Storia d’Europa con una bellissima pagina che invocava l’unione del continente.

Unito, il nostro continente lo sarebbe stato, se il programma di dominio hitleriano si fosse realizzato: sarebbe nata un’unione coatta, compiuta con la forza delle armi da parte del più forte stato nazionale, contro l’identità e contro la volontà dei popoli sottomessi, in forme e con ideologie ben più totalitarie rispetto ai tentativi di unificazione degli anni napoleonici. Nel 1940 si arrivò molto vicino a questo risultato. Ma esso non fu raggiunto.

Negli anni della seconda guerra vide la luce il primo disegno coerente di una futura federazione europea. Esso venne formulato con rigore concettuale nel Manifesto di Ventotene del 1941, redatto da Altiero Spinelli con la collaborazione di Ernesto Rossi e di Eugenio Colorni[1]. Spinelli, condannato giovanissimo per antifascismo, aveva maturato in carcere e poi al confino un critica al comunismo marxista che era sboccata in una coerente visione del federalismo politico[2]. Il nucleo centrale del ragionamento del Manifesto consiste nell’analisi delle cause che avevano condotto l’Europa a una cronica instabilità continuamente punteggiata da guerre tra Stati, sino alla tragedia delle due guerre mondiali scoppiate per responsabilità dell’Europa nell’arco di un trentennio.

La causa di fondo veniva identificata nella struttura dello stato moderno come “sovrano”, cioè nella concezione che ogni stato possa disporre in totale autonomia di un proprio esercito atto a condurre la guerra contro altri stati. Il sistema delle relazioni internazionali e la ragion di stato implicano in tal caso che ove si ravvisi, a torto o a ragione, l’esigenza di difendere o di ampliare il territorio dello stato, si arrivi a quella “continuazione della politica con altri mezzi” che è la guerra, secondo la celebre definizione del generale tedesco von Clausewitz. Anche i periodi in cui la guerra non c’è debbono considerarsi semplici periodi di tregua, non di vera pace. Il rimedio strutturale a questo stato di cose è allora uno solo: trasferire la sovranità a un livello superiore a quello degli stati, come avevano fatto a suo tempo le colonie americane, in modo tale che la guerra tra stati divenga strutturalmente impossibile. Questo implicava, in un’età in cui la sovranità risiede nel popolo attraverso le istituzioni rappresentative delle moderne democrazie, la creazione degli Stati Uniti d’Europa nella forma pacifica e consensuale della federazione tra stati.

Negli anni immediatamente seguenti alla conclusione della seconda guerra mondiale un complesso di elementi operò sinergicamente in favore dell’integrazione politica europea: il pericolo del dominio sovietico, che aveva diviso in due l’Europa con la “cortina di ferro; la dimensione europea del Piano Marshall per la ricostruzione e per la rinascita del continente squassato dalla guerra, che portò nel 1948 alla creazione dell’Organizzazione europea per la cooperazione economica (Oece) in cui erano presenti 17 Paesi europei; la presenza di movimenti federalisti attivi e organizzati, il primo dei quali fondato da Spinelli nel 1943. Lo stesso protagonista della resistenza ad Hitler, Winston Churchill, proclamò in un celebre discorso tenuto a Zurigo nel settembre 1946 la necessità di giungere un giorno all’unione federale europea. Sono tesi delle quali si dibatté al Congresso dell’Aja del 1948, nel quale le diverse anime dell’europeismo politico si confrontarono sulle prospettive future.

La svolta che condusse il disegno dal mondo delle idee a quello della realtà effettiva avvenne nel 1950, allorché il ministro francese Robert Schumann propose che la gestione del carbone e dell’acciaio venisse affidata ad un’autorità sovranazionale, indipendente da Francia e Germania, così da evitare in futuro i contrasti di interesse economico e politico che erano stati tra le cause fondamentali delle guerre del 1870, del 1914 e del 1945. L’idea di base era venuta da un altro francese, Jean Monnet (1888-1979), già attivo intermediario tra i governi di Francia, Inghilterra e Stati Uniti tra le due guerre e nel corso della seconda guerra, al fine di promuovere sul piano militare e politico una cooperazione così stretta da prefigurare (e a ciò si pensò concretamente) addirittura un’unione tra i parlamenti nazionali di Francia e Inghilterra per far fronte alla minaccia hitleriana.

Monnet si era convinto che alla federazione europea non si sarebbe giunti se non attraverso un processo graduale che creasse dei modelli di unione incentrati su singoli obbiettivi concreti[3]: un processo che coniugasse gli interessi e gli ideali, così da rafforzarli mutuamente anche a livello politico. Il cancelliere tedesco Konrad Adenauer era a sua volta deciso ad avviare il suo paese, dopo la tragedia della guerra e della distruzione, verso un assetto europeo a struttura federale; e appoggiò con convinzione il progetto Schumann. Vide la luce così la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (Ceca), approvata con il trattato dell’8 aprile 1951 al quale subito aderirono, accanto a Francia e Germania, anche l’Italia, il Belgio, l’Olanda e il Lussemburgo: nasceva l’Europa dei Sei.

Ciò che caratterizza la Ceca non è solo l’obbiettivo economico e politico della gestione comune del carbone e dell’acciaio. È invece soprattutto il modo, lo strumento giuridico-istituzionale in cui questo obbiettivo si è voluto e potuto conseguire: nella forma prevista dal trattato istitutivo, l’Alta Autorità – incaricata di assumere le decisioni necessarie alla politica comune per il carbone e per l’acciaio – è nominata dai governi nazionali ma opera in modo del tutto indipendente da questi. Le decisioni di maggior rilievo per il conseguimento dei compiti fissati dal trattato richiedono il parere conforme di un Consiglio composto dai ministri nazionali. Un’Assemblea, composta da rappresentanti a ciò designati dai parlamenti nazionali tra i propri membri, svolge compiti di controllo. Le controversie legate alla materia del trattato sono decise da una Corte di giustizia composta da giudici designati dai singoli stati.

Frattanto la situazione internazionale e il rischio incombente di dominio rappresentato dall’impero sovietico imponevano di includere la Repubblica federale tedesca nell’organizzazione della difesa euro-americana (nel 1949 aveva visto la luce la Nato). Fu allora che nacque in Francia, per iniziativa del primo ministro Réné Pleven, l’idea di dar vita ad una difesa europea, che consentisse bensì il riarmo della Germania occidentale, da realizzarsi però entro una struttura militare e politica non più nazionale ma comune. Presentato nel 1950, il progetto di una “Comunità europea di difesa” (CED) si tradusse nel 1952in un trattato che includeva, all’art. 38, il mandato conferito ad una futura Assembla parlamentare europea un progetto “a struttura federale o confederale” per i paesi europei della Ced. L’iniziativa politica che indusse i governi degli altri cinque Paesi aderenti alla Ceca – a cominciare da quelli della Francia e della Germania – a convergere su questo punto centrale era venuta dal primo ministro italiano Alcide de Gasperi, antifascista ed europeista convinto, per impulso di Altiero Spinelli. L’incarico di redigere il progetto fu affidato all’Assemblea parlamentare della Ceca, integrata con altri componenti: l’Assemblea ad hoc, presieduta dal ministro belga Paul-Henri Spaak, anch’egli convinto federalista.

Per la futura Comunità politica europea – con competenze che includevano quelle della Ceca, quelle della difesa e della politica estera, in prospettiva anche l’unione economica – il progetto prevedeva un Parlamento bicamerale con una Camera eletta a suffragio universale ed un Senato eletto dai parlamenti nazionali, titolare del potere legislativo per le materie di competenza comunitaria; un Consiglio esecutivo con un presidente eletto dal Senato e titolare del potere di governo insieme con il Consiglio dei ministri; una Corte di giustizia. Per l’entrata in vigore del progetto, approvato dai governi dei Sei paesi della Ceca (l’Inghilterra si era rifiutata di aderire), era richiesta la ratifica dei sei parlamenti nazionali. Ma il 30 agosto 1954 l’Assemblea nazionale francese respinse, con pochi voti di scarto, il progetto. Cadde così, ad un passo dal traguardo, il tentativo più ambizioso di unione europea su base federale che abbia sinora visto la luce.

La formazione della Comunità europea[modifica]

Il fallimento della Comunità europea di difesa fu avvertito come una sconfitta persino da chi l’aveva combattuta. E una forte reazione si manifestò in tempi brevi, con l’iniziativa di proseguire lungo la via dell’integrazione economica avviata con la Ceca. Un gruppo di riflessione, nominato dai governi dei Sei a Messina nel 1955 e presieduto da Paul-Henry Spaak, prospettò qualche mese più tardi un doppio obbiettivo: la creazione di un’autorità europea per l’energia atomica (la recente crisi di Suez aveva reso consapevoli i governi della precarietà delle risorge energetiche europee) e l’avvio di un mercato comune europeo. I governi accettarono queste indicazioni e promossero la redazione di un progetto organico. Si giunse così alla firma dei due Trattati di Roma del 25 marzo 1957, che istituivano l’Euratom e la Comunità economica europea (Cee)[4]. Se il primo mantenne le promesse solo in misura molto limitata (in quanto la volontà della Francia di dotarsi di una propria forza nucleare rese di fatto inoperante il trattato), il secondo si rivelò decisivo per l’integrazione europea. Anche qui l’adesione iniziale avvenne da parte dei Sei paesi della Ceca, in quanto l’Inghilterra rifiutò di aderire al progetto.

L’obbiettivo primario era di abbattere le frontiere interne al commercio intraeuropeo e di stabilire un'unica tariffa daziale esterna per la Comunità europea. Il compito era impegnativo perché si richiedeva una complessa opera di intervento normativo e amministrativo per ciascuno dei sei paesi. L’originalità del trattato sta nel modello giuridico e istituzionale che fu ideato per conseguire questi obbiettivi. Il propugnatore di esso fu nuovamente la personalità straordinaria di Jean Monnet, il quale sviluppò qui organicamente la sua impostazione, che fu detta “funzionalista”, per una progressiva integrazione dell’Europa su settori circoscritti ma essenziali dell’ordinamento economico.

Al cuore del trattato stanno il sistema delle istituzioni e il complesso delle regole e delle procedure necessarie alla creazione del mercato comune. Alla messa a punto del progetto lavorò, svolgendo un ruolo determinante, un funzionario collaboratore di Jean Monnet, il giurista ed economista Pierre Uri. L’architettura è molto simile a quella creata con la Ceca, ma presenta dimensioni assai più complesse per la ben più ampia finalità dell’impresa.

L’impalcatura della Cee è fondata su quattro istituzioni. La Commissione, nominata dai governi, ha la triplice funzione di iniziativa legislativa, di strumento di governo e di “guardiano” dei trattati. Il Consiglio dei ministri, formato dai ministri dei governi nazionali in carica, svolge la funzione legislativa ed esercita inoltre poteri esecutivi attraverso le “decisioni”; ha composizione mutevole, in quanto i ministri variano a seconda delle materie trattate. L’Assemblea parlamentare (formata da parlamentari nazionali delegati dai singoli parlamenti) coopera con il Consiglio nell’approvazione delle leggi comunitarie in misura inizialmente assai ridotta, che si accrescerà progressivamente con i successivi trattati, come diremo; può inoltre deliberare a maggioranza qualificata la censura nei confronti della Commissione, provocandone le dimissioni. La Corte di Giustizia, composta di giudici provenienti da ciascun paese della Cee, esercita la giurisdizione nell’àmbito delle competenze comunitarie – su iniziativa della Commissione ovvero di ciascuno degli Stati membri ovvero di singole persone fisiche o giuridiche – quando venga imputato ad uno Stato di avere mancato ad un obbligo imposto dal trattato o agli organi comunitari di aver assunto nei loro confronti decisioni viziate da incompetenza, illegittimità, eccesso di potere; la Corte esercita inoltre il controllo di legittimità sugli atti del Consiglio e della Commissione (art. 169-174).

È agevole vedere che le quattro istituzioni ora menzionate presentano, sia pure nei confini delle competenze specifiche del trattato, alcuni caratteri propri della statualità, a cominciare dall’articolazione tra funzione normativa (affidata alla Commissione per l’iniziativa, al Consiglio parzialmente coadiuvato dall’Assemblea parlamentare quanto al potere di decisione legislativa), funzione di governo (esercitata dalla Commissione e in parte dal Consiglio) e funzione giudicante (svolta dalla Corte di Giustizia). Non siamo certo in presenza della classica divisione dei tre poteri, ma piuttosto di una struttura istituzionale mirante ad un equilibrio dei poteri spettanti alle quattro istituzioni, con una calibrata articolazione tra di esse delle funzioni normative, esecutive e di controllo.

L’attività legislativa della Cee venne ripartita nelle due categorie dei regolamenti, immediatamente esecutivi e applicabili entro l’intera Comunità, e delle direttive, che vincolano gli stati quanto al risultato da raggiungere ma ne affidano la forma e gli strumenti necessari alle legislazioni nazionali (art. 189). Vi sono poi le decisioni, relative a casi specifici, di competenza sia del Consiglio che della Commissione, che hanno il carattere di provvedimenti immediatamente obbligatori per i destinatari, da loro impugnabili avanti alla Corte di giustizia. Questa articolazione è originale in particolare riguardo alla categoria delle direttive: il meccanismo prescritto dal trattato consente di raggiungere un risultato normativo coerente e uniforme per l’intera Comunità, assicurando però un margine di autonomia, entro i confini dei principî stabiliti, che tenga conto delle specificità dei singoli ordinamenti e degli indirizzi politici di ciascuno stato.

Con questi strumenti si è sviluppato, nel corso di mezzo secolo, un imponente complesso di norme comuni, che hanno progressivamente portato all’abbattimento delle barriere doganali interne e all’instaurazione di una vera concorrenza tra Paesi della Cee[5]. Inoltre è stato sancito il principio della armonizzazione delle legislazioni nazionali per quanto appare necessario al funzionamento del mercato comune: il trattato prevede infatti[6] (art. 100) che possano venire approvate direttive dirette a questo fine, deliberate alla unanimità dal Consiglio dei ministri su proposta della Commissione e previa consultazione dell’Assemblea parlamentare.

Un sostegno fondamentale all’integrazione economica dell’Europa comunitaria è venuto dalla giurisprudenza della Corte di giustizia. Alcune sentenze della Corte hanno in effetti costituito vere pietre miliari nella formazione del diritto europeo della Cee. Ci limitiamo a rammentarne alcune.

Nel 1963 la Corte ha sancito – con riguardo all’art. 12 del Trattato Cee ma con valenza generale – l’efficacia immediata e diretta del Trattato e delle sue prescrizioni normative all’interno dei singoli ordinamenti nazionali[7]; un’efficacia che non può venir limitata da alcun provvedimento interno di uno Stato membro[8]. La diretta applicabilità delle direttive comunitarie, anche in assenza della legge di recepimento nazionale, è stata affermata in più occasioni, a partire dal 1970[9]. Il primato del diritto comunitario sul diritto interno è chiaramente espressa nel 1978[10] e poi regolarmente confermato[11]. A seguito di ciò, anche la Corte costituzionale italiana ha riconosciuto, a partire dal 1973, la legittima applicabilità della normativa del Trattato anche in deroga rispetto alla stessa normativa costituzionale[12].

Si deve alla Corte di giustizia europea la prima esplicitazione di un principio divenuto basilare nel diritto comunitario: il principio del mutuo riconoscimento normativo, in virtù del quale ogni Stato membro, in assenza di una disciplina di armonizzazione normativa comunitaria, nei settori di competenza della Cee è tenuto a rispettare la normativa vigente nell’ordinamento al quale appartengono l’impresa o il soggetto di un altro Stato membro che operino all’interno del primo Stato[13].

Quanto alla struttura argomentativa e alle motivazioni adottate dalla Corte nelle sue decisioni, basti richiamare alcune. È del 1963 l’affermazione secondo la quale “il diritto comunitario attribuisce ai singoli, accanto agli obblighi, anche dei diritti soggettivi”, in quanto il preambolo del trattato “oltre a menzionare il governo, fa riferimento ai popoli”; fu questa[14] una decisione storica della Corte, in quanto sancì la diretta e necessaria applicabilità delle norme dei Trattati europei all’interno dei singoli ordimenti nazionali. L’anno seguente un’altra sentenza fondamentale[15] ritenne legittimo il ricorso di un singolo alla Corte europea per far valere l’asserita contrarietà di una disposizione di legge nazionale rispetto alla normativs comunitaria. Nel 1978 la preminenza del diritto comunitario sul diritto interno e il divieto di approvare nuove norme statali contrastanti con quelle comunitarie vennero giustificate dichiarando semplicemente che fare il contrario “equivarrebbe a negare il carattere reale di impegni incondizionatamente e irrevocabilmente assunti, in forza del Trattato, dagli Stati membri, mettendo così in pericolo le basi stesse della Comunità”[16].

Come è frequente per molte decisioni giudiziali di portata storica – lo abbiamo visto a proposito di sir Edward Coke e di Lord Mansfield, della Cassazione francese e della Corte costituzionale italiana – anche le motivazioni della Corte europea sono singolarmente lineari e spoglie di tecnicismi.

I risultati ottenuti con la creazione della Cee sono stati eccezionali sul terreno dell’economia[17]. Lo stimolo della concorrenza a livello europeo, congiunto con la volontà di superare le ristrettezze postbelliche, ha indotto ad un dinamismo nuovo che ha permesso una crescita economica e sociale senza precedenti nei sei paesi. Ciò ha indotto anche l’Inghilterra, inizialmente ostile al mercato comune, a mutare avviso chiedendo di entrare a farne parte. Il no francese – frattanto dal 1958 era asceso al potere il generale De Gaulle – fu superato solo nel 1972, allorché entrarono nella Cee la Gran Bretagna, l’Irlanda e la Danimarca. In seguito la Cee si è ulteriormente ampliata includendo la Grecia (nel 1979), la Spagna (frattanto restituita alla democrazia dopo la morte di Franco) e il Portogallo (nel 1985), anch’esso, come Grecia e Spagna, tornato a regime democratico grazie alla prospettiva di entrare nella Cee, che non avrebbe consentito l’ingresso di stati membri governati da regimi autocratici. Anche per questi paesi l’ingresso nella Cee, ormai composta di dodici Stati, ha prodotto risultati economici di grande rilievo.

Nel decennio durante il quale la Francia è stata governata da De Gaulle l’ideologia gollista, che avversava ogni sviluppo sovranazionale e patrocinava un’Europa “delle patrie”, in sostanza una semplice lega delle nazioni, ha imposto alcuni arretramenti rispetto agli sviluppi previsti nel trattato di Roma. Vennero congelate le clausole del trattato che prevedevano, dal 1966 in poi, una progressiva transizione dalla procedura delle decisioni all’unanimità alla procedura maggioritaria[18]. Il potere di veto si è così mantenuto, paralizzando le decisioni sulle quali anche un solo governo fosse decisamente contrario. Frattanto nel 1965 si era decisa la fusione delle tre istituzioni (Ceca, Euratom, Cee) in un unico organismo comunitario[19]. È tuttavia significativo che neppure De Gaulle abbia voluto o potuto sottrarre il suo paese ai vincoli e alle procedure in atto per l’integrazione europea, che andavano ormai al di là del modello gollista di Europa.

L’evoluzione istituzionale dell’Unione europea (1979-2000)[modifica]

Una fase nuova si aprì con l’iniziativa – assunta dal presidente francese Giscard d’Estaing e condivisa dagli altri governi della Cee – di attuare la norma del trattato di Roma che prevedeva di arrivare alla elezione a suffragio universale della Assemblea parlamentare europea, un’istanza tenacemente riproposta dai movimenti federalisti ed europeisti. Ciò fu deliberato nel 1976[20] e condusse tre anni più tardi alla prima elezione di quello che da allora si chiama Parlamento europeo. Esso acquisiva in tal modo una ben più elevata legittimazione istituzionale e costituzionale, derivante dal rapporto diretto tra i cittadini elettori e i parlamentari europei. In effetti, con l’apporto del Parlamento europeo, da questo momento in avanti, nel corso di meno di un ventennio gli avanzamenti del processo si integrazione sono stati impressionanti: nelle competenze di quella che dal 1992 si chiamerà Unione europea, nella promozione del mercato unico, nelle istituzioni, nelle procedure di decisione.

I primi risultati si videro a partire dal 1979 nel ben più incisivo controllo effettuato dal neoeletto Parlamento europeo sul bilancio comunitario, ma si ebbero soprattutto con l’approvazione di un ambizioso progetto di riforma delle istituzioni comunitarie che venne votato a larga maggioranza dal Parlamento europeo nel febbraio 1984[21]. Il Progetto, del quale fu promotore e protagonista ancora una volta Altiero Spinelli, disegnava una riforma che avrebbe attribuito alla Commissione le funzioni di governo comunitario quanto all’unione economica e al Parlamento e al Consiglio le funzioni legislative secondo un chiaro schema bicamerale, generalizzando la procedura a maggioranza per le delibere del Consiglio. Il progetto si sarebbe dovuto sottoporre direttamente alle ratifiche dei parlamenti nazionali. Con negoziati ad hoc si sarebbero regolati i rapporti con quegli stati che non avessero ratificato il progetto, respingendo il nuovo assetto della Cee: così da superare l’ostacolo costituito dalla norma del trattato Cee (art. 236), tuttora in vigore, che esige la ratifica unanime da parte degli stati membri per le modifiche dei trattati europei.

La maggioranza dei governi nazionali, con diverse motivazioni, non ritenne di dar corso al progetto, pur non avendolo formalmente respinto. Ma la necessità, chiaramente avvertita dai governi, di non arrestare il processo di integrazione condusse, due anni più tardi, all’approvazione dell’Atto unico del 29 dicembre 1986[22]. Un ruolo importante fu svolto, per la sua messa a punto, dal presidente della Commissione europea Jacques Delors. L’Atto estendeva, se pur in forma molto succinta, le competenze della Cee alla coesione economica e sociale tra le regioni, alla ricerca e allo sviluppo tecnologico, all’ambiente e alla cooperazione nella politica estera. L’obbiettivo fondamentale del nuovo trattato era però un altro: con esso fu deciso di portare a compimento – entro un termine dei sei anni, cioè entro il 1992 – l’integrazione economica europea iniziata nel 1957 realizzando in forma compiuta le quattro libertà che ne costituiscono l’essenza, cioè la libera circolazione delle merci, delle persone, dei capitali, dei servizi. Proprio il grande successo del mercato comune induceva a completarne il disegno.

A questo scopo l’Atto introduceva alcune importanti innovazioni istituzionali. Anzitutto prevedeva per il futuro la regolare convocazione del Consiglio europeo (costituito dai capi di stato e di governo dei paesi membri), che diveniva così l’istanza superiore per gli impulsi politici necessari alla vita della comunità. In secondo luogo deliberava che ai pareri sin’allora richiesti al Parlamento europeo si sostituisse una ben più impegnativa procedura di “cooperazione”: nei casi previsti, perché una proposta di regolamento o di direttiva – avanzata dalla Commissione e votata dal Consiglio dei ministri a maggioranza qualificata – potesse venire approvata e diventare operativa, occorreva il voto del Parlamento europeo. In terzo luogo l’Atto unico stabiliva che l’armonizzazione delle legislazioni nazionali, nei settori in cui essa fosse necessaria per arrivare al mercato unico, potesse venir attuata con direttive comunitarie decise dal Consiglio a maggioranza qualificata e sottoposte per l’approvazione o per gli emendamenti alla procedura di “cooperazione” del Parlamento europeo.

Il compito da svolgere per conseguire l’obbiettivo del mercato unico si rivelò davvero impegnativo. In seguito alla redazione di Libro Bianco per conto della Commissione (1985), l’inglese Lord Cockfield tracciò una precisa mappa di ben trecento direttive, necessarie per assicurare le quattro libertà di circolazione. La nuova procedura di approvazione delle direttive prevista dall’Atto unico, con decisioni a maggioranza e cooperazione del Parlamento, si rivelò fruttuosa. Il principio del mutuo riconoscimento normativo, anch’esso esplicitato nel Libro Bianco, ricevette un forte impulso anche perché coerente con l’istanza di una parziale riduzione normativa (deregulation) al livello comunitario.

Se nella prima fase del mercato comune il modello dell’armonizzazione e dell’uniformità legislativa era stato ben presente – era il modello dell’unione doganale (Zollverein) e del Codice di commercio pantedesco del 1861 (ADHGB), che aveva svolto un ruolo d’avanguardia nell’unificazione politica della Germania – in questa seconda fase si affermò il diverso modello della “concorrenza tra norme” dei diversi Paesi, un modello concepito come strumento di crescita economica ed anche di spontanea armonizzazione normativa. A loro volta, le forze economiche dei Dodici paesi della Comunità europea diedero un impulso decisivo orientando le proprie scelte (ciò non era scontato) nella direzione del mercato unico. Quel che più conta è che in effetti, a partire da questi anni, nei settori legati alla politica economica, una gran parte della legislazione nazionale dei Paesi della Comunità non è altro che l’applicazione, sia pur differenziata in ciascun paese, delle direttive comunitarie. Uno spicchio fondamentale della sovranità nazionale si era ormai trasferito al livello europeo.

Tuttavia un ostacolo si frapponeva, non ancora affrontato. La libertà degli scambi, la mobilità dei capitali, la fissità dei cambi e l’autonomia delle politiche monetarie non erano perseguibili congiuntamente: se i tre primi obbiettivi si ritenevano necessari nell’ottica del mercato unico, occorreva eliminare la possibilità di politiche monetarie indipendenti degli Stati membri[23]. La soluzione del Sistema monetario europeo (Sme) degli anni Settanta e Ottanta, con bande programmate di oscillazione dei cambi, aveva solo tamponato la situazione senza risolverla. Occorreva a questo fine completare l’unione economica con l’unione monetaria al livello europeo. Un Comitato preseduto da Delors fu incaricato di studiare la questione e il Rapporto che ne risultò, sottoscritto unanimemente dai governatori delle Banche centrali della Cee, indicò le procedure e le tappe che avrebbero permesso di raggiungere l’unione monetaria in coerenza con l’unione economica.

Da queste premesse nacque, nel 1992, il Trattato di Maastricht[24], che ha creato l’Unione europea. Al centro di esso stava il progetto di creare una moneta unica istituendo una Banca centrale europea, responsabile della politica monetaria dell’Unione e composta da un direttorio di sei membri e dai governatori delle singole banche centrali dei paesi della moneta unica[25]. Si stabilì che la moneta europea, battezzata euro, sarebbe decollata sette anni più tardi, alla fine del 1999. Un preciso assetto di regole assegnò alla Banca centrale europea la responsabilità esclusiva della politica monetaria, le assicurò piena indipendenza dai governi secondo il modello tedesco della Bundesbank e previde che le decisioni entro il Consiglio potessero sempre venire assunte a maggioranza, non con un voto ponderato ma con un voto a testa per ciascun componente del Consiglio.

Il Trattato di Maastricht ha innovato anche su altri fronti. Sul terreno dell’unione economica il trattato include una serie di altre competenze di grande rilievo. Il capitolo sulla politica social[26] assicura interventi e investimenti dell’Unione a sostegno delle regioni meno sviluppate. Il capitolo sulla politica sociale e sulla formazione[27] ha lo scopo di garantire alcuni requisiti comuni sulle condizioni di lavoro e di tutela dei lavoratori e dei giovani all’interno dell’Unione. Si afferma qui, in modo esplicito, una direttrice fondamentale dell’Unione europea, un aspetto qualificante del “modello europeo” rispetto ad altri modelli del mondo contemporaneo, che si esprime con il termine di “solidarietà”: se il mercato unico ha lo scopo di moltiplicare gli scambi e di favorire così i consumatori in pari tempo facendo crescere il benessere collettivo, la solidarietà promuove forme di protezione e di tutela dei territorii poveri e delle collettività economicamente arretrate dell’Unione.

Il capitolo sull’ambiente[28] pone le basi di una comune politica a tutela del paesaggio e delle condizioni di vita contro i pericoli dell’inquinamento e della devastazione del territorio. Altre competenze dell’unione riguardano le tecnologie e la ricerca, le reti transeuropee, la protezione dei consumatori, la sanità pubblica, la cultura e la salvaguardia del patrimonio culturale europeo, l’industria, la cooperazione per lo sviluppo dei Paesi sottosviluppati. Si tratta, in tutti questi casi, di competenze “concorrenti”, che coesistono con quelle degli Stati e sono complementari, nel rispetto del principio di sussidiarietà. Le sole competenze esclusive dell’Unione riguardano la politica sulla concorrenza per il mercato unico e la politica monetaria.

Inoltre il Trattato ha esteso le competenze dell’Unione europea alla politica estera e di sicurezza[29] (il cosiddetto “secondo pilastro”, mentre il primo pilastro è costituito dall’unione economica e monetaria) e agli affari interni e di giustizia[30] (il “terzo pilastro”), concernenti l’immigrazione, le procedure giudiziarie e di polizia contro la criminalità transnazionale ed altre materie connesse. Le fondamentali nuove competenze del secondo e del terzo pilastro restano tuttavia essenzialmente di pertinenza dei governi, con un più limitato ruolo per la Commissione e un ruolo ancora minore per il Parlamento europeo.

Tra i principî generali accolti nel trattato due in particolare sono da sottolineare per la loro portata: il concetto di cittadinanza europea[31], pur se limitato ad alcuni campi specifici tra i quali i diritti elettorali degli immigrati; e il principio di sussidiarietà[32] (art. 3 B Tue), davvero fondamentale, con il quale si esplicita il criterio per il quale le decisioni relative alle materia di competenza concorrente tra gli stati nazionali e l’unione vanno assunte al livello inferiore e perciò più vicino al cittadino, mentre il livello europeo della decisione deve prevalere se e quando si rivela il solo atto a realizzarla o quanto meno il più efficace. È questo un canone fondamentale del diritto europeo, che non intende sostituire i diritti nazionali o locali se non dove ciò risulti necessario alle finalità dell’unione, da tutti condivise perché contenute nei trattati.

Infine, il trattato di Maastricht ha introdotto una serie di riforme istituzionali. Prima di tutto i poteri del Parlamento europeo vengono considerevolmente accresciuti introducendo per molte materie una procedura di “codecisione” che, aggiungendosi a quella di “cooperazione” prevista dall’Atto unico e sostituendola in taluni settori, comporta un ruolo accresciuto del Parlamento stesso nell’iter legislativo comunitario. In caso di contrasto con il Consiglio si introduce un complesso procedimento di “conciliazione”. Ma nessun regolamento e nessuna direttiva possono passare contro la volontà della maggioranza assoluta del Parlamento. Si rafforza inoltre il ruolo del Parlamento nella formazione della Commissione: il presidente è designato dal Consiglio alla unanimità dopo consultazione con il Parlamento europeo e la Commissione viene nominata solo dopo aver ricevuto il voto positivo del Parlamento stesso[33].

Il Consiglio europeo, che dal 1974 riunisce i Capi di Stato, è divenuto nel Trattato di Maastricht un vero organo dell’Unione, dal quale partono (e già sono partiti) gli impulsi politici più rilevanti per le politiche dell’Unione. In seno al Consiglio dei ministri sono aumentate le materie per le quali è possibile decidere a maggioranza qualificata. Tuttavia il principio dell’unanimità è rimasto per tutte la materie più importanti: tra queste, l’armonizzazione legislativa e fiscale, il bilancio, la politica sociale, l’ambiente, le decisioni sulle risorse dell’Unione e molte altre. In questi casi, inoltre, al Parlamento europeo spetta semplicemente di esprimere un parere, senza alcun potere di codecisione. Ciò vale, a maggior ragione, per il secondo e per il terzo pilastro (Beutler, 1998). Se dunque, da un lato, il modello di tipo democratico e parlamentare dell’Unione europea si è delineato con una certa chiarezza nel gioco congiunto di Commissione, Consiglio e Parlamento, dall’altro esso è assente proprio nei settori di maggior rilevanza, che pure sono ormai di competenza dell’Unione.

Va d’altra parte osservato che le esigenze connesse con un avvio e con una gestione corretta dell’unione monetaria e dell’unione economica hanno portato alla adozione, nel trattato, di misure di monitoraggio e di controllo molto rigorose sui limiti dei deficit nazionali e sul livello del debito pubblico dei singoli stati, misure ulteriormente rafforzate con l’adozione del “patto di stabilità”[34]. Sotto questo profilo la disciplina giuridica dell’Unione è addirittura più accentratrice e più limitante, per la sovranità nazionale, rispetto a quella prevista in ordinamenti di tipo federale maturo, quali quello statunitense.

Nel decennio seguito al trattato di Maastricht si sono succeduti a breve distanza diversi interventi di modifica dei trattati europei, che mostrano come vi sia stata nei governi la consapevolezza che l’assetto istituzionale non era ancora a punto per nessuno dei tre pilastri relativi alle ormai vastissime competenze dell’Unione europea.

Nel 1994 sono entrate a far parte dell’Unione europea anche l’Austria, la Finlandia e la Svezia: era ormai l’Europa dei Quindici.

Il Trattato di Amsterdam del 1997[35] ha innovato su più fronti. Il ruolo del Parlamento europeo è stato ulteriormente potenziato: il nome del presidente della Commissione designato dal Consiglio deve ottenere pregiudizialmente l’approvazione del Parlamento europeo, il quale deve, alla fine del processo, confermare con il suo voto l’entrata in carica della Commissione[36]. E conserva inoltre il potere di censura che costringe a dimettersi, ove espresso, la Commissione intera. La procedura legislativa si è resa da un lato resa meno farraginosa rispetto alla disciplina di Maastricht: le fasi previste in caso di contrasto con il Consiglio si riducono notevolmente, dall’altro la codecisione si è estesa a numerose materie prima affidate alla “cooperazione”. Per diverse materie, inoltre, il Parlamento è ora chiamato a codecidere e non semplicemente consultato.

Il presidente della Commissione ha acquistato maggior peso, in quanto la designazione dei Commissari esige non solo il voto del Consiglio ma anche il suo consenso[37]: egli diviene così una sorta di primo ministro. Inoltre si è stabilito che in futuro ogni stato, indipendentemente dalle sue dimensioni, non possa avere più di un solo commissario: si preparava infatti l’ingresso di dieci nuovi paesi europei nell’Unione e si voleva evitare una Commissione pletorica.

Quanto al Consiglio dei ministri, le materie per le quali si è ammessa la decisione a maggioranza qualificata sono aumentate: sono quasi senza eccezione le stesse per le quali è prevista la codecisione del Parlamento. Vi è però l’introduzione di una clausola detta di salvaguardia, che permette a un governo di bloccare una decisione sulla quale vi sia la maggioranza qualificata ove ritenga che esistano “specificati e importanti motivi” per respingerla da parte del suo paese[38]. D’altra parte si è introdotta la possibilità che uno o più governi esprimano, se lo ritengono, la loro astensione, la quale a differenza del voto contrario non blocca l’approvazione di una decisione sulla quale gli altri ministri siano unanimi[39]. Questo vale anche per talune decisioni relative al terzo pilastro. È evidente, in queste disposizioni, la tensione tra due poli: da un lato l’evidente necessità di non farsi bloccare dal potere di veto, dall’altra il costante timore dei governi di abbandonare l’àncora dell’unanimità.

Si è inoltre introdotta la “cooperazione rafforzata”, che permette di portare avanti iniziative non condivise da tutti – purché non contrastanti con le precedenti normative dell’Unione – qualora almeno otto governi (sui quindici) siano d’accordo. Ma vale anche qui la clausola di salvaguardia. Inoltre, si è precisato in modo più analitico il principio di sussidiarietà, con l’importante corollario che essa risulta operante nei due sensi: verso il basso se risulta che una decisione può venire assunta efficacemente a livello nazionale, verso l’alto se invece l’obbiettivo non può conseguirsi se non decidendo al livello europeo. Infine, il nuovo Trattato sancisce l’impegno dell’Unione a promuovere “il rispetto dei diritti fondamentali”, come garantiti dalla Convenzione europea sui diritti dell’uomo: un’affermazione di principio di grande importanza sia nei rapporti interni all’Unione sia nei confronti con i paesi terzi.

Su altri punti la stessa conferenza di Amsterdam aveva rinviato al futuro, nell’impossibilità di trovare una soluzione condivisa. E per questo, appena tre anni più tardi, una nuova conferenza intergovernativa si concluse nel dicembre 2000 con l’approvazione del Trattato di Nizza[40]. Il principale risultato che si voleva conseguire è di predisporre le condizioni istituzionali per l’ingresso nell’Unione di dieci nuovi Paesi, in gran parte situati nell’Europa centro orientale e usciti dal dominio sovietico dopo la crisi del comunismo seguita al 1989.

Quanto alla scelta dei membri della Commissione, il nuovo trattato ha abbandonato la regola dell’unanimità del Consiglio e lo ha sostituito con la decisione a maggioranza qualificata, sia per la designazione che per la nomina finale dei commissari susseguente al voto del Parlamento europeo. Anche per la designazione e la nomina del presidente della Commissione da parte del Consiglio si è richiesta la maggioranza qualificata e non più l’unanimità[41]. Si è inoltre concordata l’estensione della procedura di decisione a maggioranza qualificata ad una serie di circa venti materie in precedenza decidibili solo all’unanimità. Alcune di esse sono indubbiamente rilevanti[42].

Il Trattato ha disposto inoltre che ogni proposta da decidersi a maggioranza qualificata che non raccolga il voto di un numero di Stati la cui popolazione complessiva raggiunga almeno il 62% di quella complessiva dell’Unione possa venire bloccata su richiesta anche di un solo Stato[43]. Si è dunque introdotto il principio di una minoranza di blocco, un principio inteso a permettere di evitare la messa in minoranza di tre Stati tra i più popolosi (uno dei quali sia però la Germania con i suoi 80 milioni di abitanti), ovvero di almeno due stati grandi più un gruppo di Stati minori.

Questa disposizione del Trattato di Nizza presenta un risvolto costituzionale importante: per la prima volta si introduce l’elemento della popolazione complessiva dell’Unione. Non si parla, deliberatamente, di “popolo”, ma la popolazione complessiva costituisce un elemento rilevante ai fini delle decisioni comuni entro il Consiglio.

Il negoziato concluso a Nizza ha stabilito le procedure operative in vista dell’ingresso nell’Unione europea dei paesi dell’Europa centro-orientale (Polonia, Ungheria, Repubblica ceca, Slovacchia, Slovenia), delle repubbliche baltiche (Estonia, Lettonia, Lituania) e dei piccoli stati insulari mediterranei di Malta e di Cipro. Dal 2005 l’Unione comprende ormai 25 Stati membri, ai quali si sono aggiunte anche la Romania e la Bulgaria e la Croazia, con una popolazione complessiva di circa 500 milioni di cittadini.

Il Consiglio europeo di Nizza ha inoltre varato la Carta dei diritti dell’Unione[44], che era stata previamente approvata dalla Commissione e dal Parlamento europeo. Si tratta di un documento che enuncia una serie di diritti fondamentali comuni all’intera Unione. La Carta è stata predisposta da una Convenzione presieduta dal tedesco Roman Herzog[45] e composta da rappresentanti del Parlamento europeo, dei Parlamenti nazionali, dei Governi e della Commissione europea: un organismo dotato, pertanto, di un grado molto elevato di legittimazione politica e istituzionale.

Scopo della Carta è di definire con chiarezza il perimetro dei valori e dei principî fondamentali nei quali l’Unione riconosce la sua identità e ai quali ispira la sua azione, sia al proprio interno che nella valutazione di nuove domande di adesione. Tali principî sono raggruppati in sei capitoli, per un complesso di 54 articoli, alcuni dei quali toccano esigenze e istanze maturate solo negli anni recenti, in parte nuove rispetto alle formulazioni tradizionali delle precedenti Carte dei diritti. Il principio della dignità si applica ad ogni persona umana ed include il diritto alla vita e all’integrità personale (artt. 1-5). La libertà si estende alla vita privata, all’istruzione, al lavoro e all’impresa (artt. 6-19). L’uguaglianza esclude le discriminazioni tra uomini e donne o fondate su preferenze religiose, ideologiche o sessuali ed è affermata anche con riguardo ai diritti dei bambini, degli anziani e dei disabili (artt. 20-26). La solidarietà si esplica, tra l’altro, nelle condizioni di lavoro, nell’ammissione di azioni collettive, nella tutela dell’ambiente, nella protezione dei consumatori (artt. 27-38). La cittadinanza include il diritto di voto per il Parlamento europeo e per le amministrazioni municipali a favore dei cittadini che risiedono in uno Stato dell’Unione diverso dal proprio, nonché la piena libertà di circolazione e di soggiorno entro l’Unione europea (artt. 39-46). La giustizia comprende il diritto al gratuito patrocinio per gli indigenti, la presunzione di innocenza e la durata ragionevole del processo (art. 47-50). Come si vede, le tradizionali libertà sono ricomprese in questo quadro – nel quale è agevole ravvisare, per alcuni capitoli, la traccia permanente della Rivoluzione francese, con il trinomio di libertà, eguaglianza e fraternità – e vengono integrate e rafforzate con garanzie ulteriori relative a nuovi diritti.

Pure se non direttamente “azionabili”, in quanto il Trattato di Nizza non ha incluso la Carta tra i testi dotati di valore vincolante al livello europeo, i diritti fondamentali enunciati nella Carta sono tuttavia rilevanti non solo sul piano dei principî, in quanto sia la Corte di giustizia dell’Unione sia la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo sono in grado di tenerne conto nelle loro pronuncie, che sogliono ormai fare frequente riferimento ai principî generali del diritto europeo.

La presenza di una Carta dei diritti, congiunta con la disciplina della cittadinanza europea, attribuisce di per sé all’Unione alcuni caratteri propri di una moderna costituzione. In realtà non è fuori luogo ritenere che l’Unione possieda già una sua “costituzione materiale”, pur in assenza di un testo formalmente costituzionale, se si considera il fatto che le cinque istituzioni fondamentali di essa – i due Consigli dei primi ministri e dei ministri, il Parlamento europeo, la Commissione, la Corte di Giustizia – presentano, come si è detto, molti dei caratteri propri della statualità.

Vivo è stato negli ultimi anni il dibattito sull’opportunità che l’Unione europea spinga l’armonizzazione legislativa sino a dotarsi di un Codice civile unico. I progetti non sono mancati, nella forma di un codice di principî, o di un insieme di regole comune sui conflitti di legge, o di una comune codificazione in tema di contratti. Ma prevalente è stata la tesi che un ampio margine di autonomia debba essere mantenuto, su questo fronte, alle diverse tradizioni nazionali, specie in temi legali al diritto di famiglia, alle successioni, ai diritti reali.

Dalla Convenzione europea al Trattato di Lisbona e oltre (2001-2018)[modifica]

La dottrina giuridica, che ha sin dagli anni Cinquanta preso in considerazione i caratteri peculiari della Comunità e poi dell’Unione europea, ha inizialmente analizzato le regole e le istituzioni comunitarie con la lente e con gli strumenti concettuali propri della dottrina internazionalistica, fondandosi cioè sulla natura pattizia delle norme del trattato istitutivo della Cee. Con lo sviluppo storico e istituzionale che ha portato dalla Comunità all’Unione si è però gradualmente imposto un approccio di tipo costituzionalistico nelle trattazioni di diritto europeo: la disciplina dei trattati e la loro evoluzione e trasformazione hanno mantenuto i tratti tipici del diritto internazionale, ma le istituzioni dell’unione, la produzione normativa, il sistema delle garanzie e dei controlli, l’esistenza di un Parlamento elettivo, tutto ciò ha indotto molti studiosi dei diversi Paesi – compresi alcuni acuti osservatori di oltre Oceano – ad adottare parametri concettuali e categorie giuridiche proprie del diritto costituzionale di una federazione di stati, pur con la chiara consapevolezza della loro distanza rispetto a una realtà come quella dell’Unione, che tale natura per ora non ha se non in misura parziale, e che non pochi studiosi ritengono non possa raggiungere in forma matura neppure in avvenire.

La progressiva estensione delle competenze dell’Unione nei suoi tre “pilastri” ha dunque determinato, nel corso del ventennio dal 1984 in poi, una serie ininterrotta di riforme, che nel 1986, nel 1992, nel 1997 e nel 2000 si sono realizzate con modifiche incisive dei trattati comunitari. Abbiamo visto sopra come ognuna di queste riforme abbia contestualmente dilatato le competenze e le funzioni dell’Unione e modificato le regole istituzionali: le funzioni del Parlamento europeo, le procedure di voto entro il Consiglio, la scelta del presidente e dei membri della Commissione si sono modificate e accresciute progressivamente. Tuttavia restavano pur sempre non sciolti molti nodi, per i quali il Consiglio europeo rinviava ogni volta a interventi futuri. Con il vertice di Laeken del 2001 il Consiglio stabilì di affidare ad una Convenzione – comprendente rappresentanti dei Parlamenti nazionali, del Parlamento europeo, della Commissione e dei Governi, analogamente a quanto era avvenuto con la Carta dei diritti – il compito di ridisegnare nel loro complesso le funzioni e le istituzione dell’Unione, in un quadro finalmente organico ed adeguato.Nacque così, dopo un anno e mezzo di lavoro della Convenzione – presieduta da Valéry Giscard d’Estaing, essa comprendeva 105 membri, tra i quali anche gli osservatori dei dieci Paesi dell’allargamento già ricordati, dei quali era ormai prossimo l’ingresso dell’Unione – venne approvato nel 2003 un Progetto di “Trattato che istituisce la Costituzione dell’Unione europea”. Discusso e in qualche punto modificato dalla successiva Conferenza intergovernativa, il progetto venne sottoscritto alla unanimità dal Consiglio europeo di Roma il 29 ottobre 2004[46] e sottoposto alle ratifiche nazionali.

La struttura sistematica adottata è indubbiamente molto razionale, rispetto ai trattati precedenti. Il Trattato comprende infatti quattro parti: la prima sui principi e sulle istituzioni dell’Unione; la seconda sulla Carta dei diritti; la terza sulle disposizioni specifiche per il funzionamento dell’Unione; la quarta sulle procedure di modifica futura del Trattato. Le prime due parti (in tutto circa 200 articoli) presentano i caratteri propri di una Costituzione, pur se proposti in forma di trattato. Purtroppo tale impostazione è caduta nella versione approvata a Lisbona quattro anni più tardi.

Il Trattato costituzionale ha l’ambizione di dare un assetto istituzionale e funzionale adeguato ad una realtà tuttora in divenire, quale è quella dell’Unione. Alcune innovazioni contenute nel testo sono di indubbio rilievo. Tra queste, vanno menzionale: l’accoglimento della Carta dei diritti come diritto positivo dell’Unione; un quadro istituzionale unificato, che si sostituisce alla struttura dei tre pilastri; un nuovo modo di voto entro il Consiglio, basato sulla regola della doppia maggioranza degli stati e della popolazione; l’attribuzione della presidenza del Consiglio europeo a un personaggio che non ricopra contemporaneamente la carica di capo di stato o di governo, per una durata di due anni e mezzo, iterabile per una volta; la creazione di un ministro degli esteri dell’Unione, presente nel Consiglio e in pari tempo vicepresidente della Commissione; la generalizzazione e la semplificazione della procedura di codecisione per le leggi europee; l’avvio di una politica di sicurezza comune e di una difesa europea[47]; la nuova disciplina della cooperazione rafforzata[48]; la possibilità di passare dalla regola dell’unanimità a quella delle decisioni a maggioranza per quasi tutte le competenze dell’Unione, all’ardua condizione, però, che su questo passaggio ci sia accordo unanime (“clausola passerella”); la maggior tutela del principio di sussidiarietà con un coinvolgimento dei Parlamenti nazionali; l’istituzionalizzazione del metodo della Convenzione per le future modifiche della Costituzione europea; ed altro ancora.

Nonostante queste innovazioni, il Trattato costituzionale non ha corrisposto se non in misura limitata alle attese. L’esame dei lavori della Convenzione rivela che la maggioranza dei suoi membri era favorevole all’adozione di regole istituzionali più incisive[49]. In particolare, i due punti cruciali – il potere di veto che paralizza ogni decisione controversa e l’esclusione del Parlamento europeo dalle decisioni per le quali ancora vige la regola dell’unanimità dei governi – non sono stati affrontati. Inoltre, la procedura prevista per le future modifiche del Trattato costituzionale, pur avendo il merito di istituzionalizzare il metodo della Convenzione, mantiene l’obbligo del voto unanime del Consiglio e la regola della ratifica unanime da parte degli stati[50].

La mancata ratifica del Trattato costituzionale, determinata dal voto negativo dei referendum tenuti nel 2005 in Francia e in Olanda, ha portato ad un nuovo Progetto approvato a Lisbona alla fine del 2007 da una nuova Conferenza intergovernativa. Esperita questa volta con successo la procedura di ratifica, il nuovo Trattao è entrato in vigore il 1° dicembre 2009.

A differenza del Trattato costituzionale, il Trattato di Lisbona si presenta nella forma tradizionale di una serie di emendamenti ai due Trattati europei precedenti, il Trattato per l’Unione europea (TUE)[51] e il Trattato per il funzionamento dell’Unione europea (TFUE)[52]. La sostanza, tuttavia, è rimasta quella convenuta nel 2004, con le sole eccezioni dell’eliminazione di ogni riferimento alla parola costituzione nonché dei simboli della bandiera e dell’inno, che peraltro sono in vita da decenni senza che mai siano stati per così dire codificati.

Un primo elemento di grande significato, presente nel Trattato di Lisbona, consiste nella costituzionalizzazione della Carta dei diritti. Nel nuovo Trattato essa è richiamata espressamente sicché essa è ormai propriamente azionabile dal momento che essa “ha il medesimo valore giuridico dei trattati dell’unione” (TUE/Lisb, art.6). È appena il caso di rammentare come la Carta dei diritti costituisca, a partire dai secoli XVII e XVIII, un pilastro delle moderne carte costituzionali. Nel Trattato costituzionale del 2004 la Carta figurava coerentemente come parte II del testo; nel Trattato di Lisbona la sua collocazione è più defilata, in quanto è approvata nella forma di Dichiarazione annessa al Trattato stesso, ma la sostanza giuridica della sua “costituzionalizzazione” non muta.

Molto rilevanti sono altri principî contenuti nel nuovo Trattato. La personalità giuridica dell’Unione europea è espressamente affermata (TUE/Lisb, art. 47), con la conseguenza che essa potrà autonomamente negoziare iniziative e sottoscrivere impegni internazionali nonché figurare come soggetto autonomo negli organismi internazionali. Nuova è anche l’esplicita menzione del principio di democrazia rappresentativa al quale l’Unione è tenuta (TUE/Lisb, art. 10. 1): un’affermazione che sottintende l’impegno verso una coerente applicazione del principio della sovranità popolare, allo scopo di sanare quello che si usa chiamare il deficit democratico dell’Unione stessa. Vi è poi uno strumento di democrazia diretta con il quale si impone alla Commissione e agli organi dell’Unione di portare avanti proposte sottoscritte da un milione di cittadini europei (TUE/Lisb, art. 11. 4).

L’unificazione dei tre pilastri (economia e moneta; politice estera e di difesa; affari interni e giustizia) costituisce un altro rilevante elemento innovativo. Se ben diverso è il regime decisionale previsto per le materie dell’unione economica rispetto quello adottato per le competenze su politica estera e sicurezza – che il nuovo Trattato affida ancora in prevalenza al metodo intergovernativo e al voto unanime dei governi – tuttavia vi è nel nuovo Trattato un parziale coinvolgimento della Commissione e del Parlamento europeo.

I poteri del Parlamento europeo sono ulteriormente ampliati, sia per l’estensione (anche se solo parziale) della procedura di codecisione, che diviene la procedura legislativa ordinaria dell’Unione, sia per il ruolo di proposta e per il potere di emendamento relativi alle future modifiche dei trattati. Viene rafforzato il ruolo dei Parlamenti nazionali, soprattutto per quanto riguarda il rispetto del fondamentale principio di sussidiarietà (TUE/Lisb, art. 5. 3 e art. 12)[53].

Il Consiglio dei ministri nelle materie decidibili a maggioranza qualificata procede con il criterio della doppia maggioranza, che richiede il sì del 55% dei governi dell’UE che rappresentino almeno il 65% della popolazione dell’Unione (TUE/Lisb, art. 16. 4). È un risultato importante anche perché presuppone di considerare la popolazione complessiva dell’Unione come un’entità unica, anche se deliberatamente non si è voluto impiegare il termine “popolo”. Significativo è inoltre il principio per il quale le decisioni del Consiglio di natura legislativa saranno assunte con discussione pubblica (TUE/Lisb, art. 16. 8).

È stata introdotta una nuova figura per la presidenza del Consiglio europeo, con la nomina da parte dei Capi di Stato e di governo dell’Unione, a maggioranza qualificata, di un Presidente non titolare di un incarico nazionale, con un mandato di due anni e mezzo rinnovabile per una sola volta (TUE/Lisb, art. 15), superando il meccanismo della rotazione semestrale, che tra l’altro in un’Unione di ventotto membri penalizzerebbe eccessivamente gli Stati di maggiori dimensioni. L’eventuale cumulo nella stessa persona delle due cariche di presidente della Commissione e di presidente del Consiglio europeo non è giuridicamente esclusa.

Nuova è anche l’istituzione di un Alto rappresentante dell’Unione per la politica estera e la sicurezza (Pesc), nominato a maggioranza qualificata dal Consiglio europeo con l’accordo del Presidente della Commissione (TUE/Lisb, art. 18). Egli presiede il Consiglio per gli affari esteri dell’Unione, composto dai ministri degli esteri degli Stati membri ed è tenuto a consultare con regolarità il Parlamento europeo sulle scelte di politica estera e di sicurezza dell’Unione (TUE/Lisb, art. 36). Rilevante è l’istituzione un servizio diplomatico dell’Unione, autonomo rispetto ai servizi nazionali.

Per la difesa, la parallela procedura della cooperazione strutturata (TUE/Lisb, art. 42.6) presenta profili dotati di notevoli potenzialità: non solo riguardo all’istituzione e agli sviluppi di un’Agenzia europea degli armamenti ma anche per il fattto che non si richiede un numero di Stati membri predeterminato per dare corso ad iniziative ed azioni miranti ad un più stretto coordinamento europeo nel settore militare e della difesa. Vi è poi una rilevante riforma della procedura di cooperazione rafforzata, per iniziative di maggiore integrazione condivise da almeno otto Srtati (TUE/Lisb, art. 20; cf. TFUE/Lisb, artt. 326-333).

Il procedimento di revisione futura dei trattati (TUE/Lisb, art. 48) prevede il potere di iniziativa del Parlamento europeo, oltre che della Commissione e dei singoli governi, per presentare proposte di modifica. La maggioranza semplice del Consiglio è sufficiente per dare avvio ai lavori della Convenzione, la quale in tal modo diviene un soggetto permanente dell’evoluzione futura dell’Unione, dotata di un proprio livello di legittimazione democratica[54].

Il Consiglio europeo è tuttora ancorato alla procedura per consenso (TUE/Lisb, art. 15.4), che non comporta formalmente il requisito dell’unanimità ma che tale requisito presuppone comunque nella sostanza, nei casi in cui un dissenso anche di un solo governo non sia superabile. Anche le future Convenzioni dovranno decidere per consenso (TUE art. 48.3), come è avvenuto in occasione del Trattato costituzionale. Per il Consiglio dei ministri permane la regola della unanimità per una serie amplissima di materie, tutte fondamentali, anche sul primo pilastro: dalla politica fiscale alle risorse di bilancio, dalle politiche sull’ambiente alle politiche sociali e a molti altri settori. E questo requisito vale anche per la politica estera, la sicurezza, la difesa, l’immigrazione (con alcune eccezioni), la giustizia ed altro ancora[55]. Rimane inoltre il doppio requisito dell’unanimità dei governi e dell’unanimità delle ratifiche per i futuri emendamenti ai Trattati (TUE/Lisb art. 48. 4).

Contestualmente all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona e negli anni successivi la grave crisi della finanza e dell’economia si è trasmessa dagli Stati Uniti all’Europa, determinando rischi molto seri per la tenuta dell’euro e dello stesso mercato unico. Tutta una serie di interventi intricati e complessi, promossi dal Consiglio europeo per iniziativa precipua della Germania, ha introdotto molti elementi nuovi nelle regole dell’Unione.

Essi possono essere così sintetizzati. Il Patto di stabilità deliberato a Maastricht nel 1992 e integrato con l’ulteriore requisito della crescita deliberato nel 1997 è stato rafforzato in modo sostanziale allo scopo di evitare che l’accumulo del debito pubblico e del deficit di singoli Stati membri (per i quali il Trattato del 1992 stabiliva una soglia non superiore rispettivamente al 60% e al 3% del Prodotto interno lordo di ciascuno Stato) possa portare all’incapacità di far fronte ai propri impegni, dunque a un default che comprometterebbe l’esistenza stessa della moneta comune ovvero imporrebbe pesanti sacrifici agli altri Stati membri. In assenza di un assetto federale compiuto – che comporterebbe tra l’altro l’istituzione un Tesoro e di un Fisco europeo – fu deciso che questo rischio potesse evitarsi solo imponendo regole molto strette per controllare i debiti e i deficit nazionali; e così fu fatto – con un Trattato votato da 25 Governi su 27, dunque esterno rispetto ai Trattati dell’Unione: TSCG, il cd. Fiscal Compact [56] – imponendo ai Paesi membri aderenti di introdurre norme legislative e costituzionali stringenti per il controllo dei rispettivi bilanci nazionali. Contemporaneamente, con una modifica dell’art. 136 TFUE di Lisbona, si è dato vita a un Meccanismo europeo di stabilità (ESM)[57] che sarà dotato in prospettiva di un proprio capitale e sarà abilitato a deliberare (con decisioni unanimi dei governi) misure comuni di salvaguardia e di assistenza a Paesi ed in situazioni di difficoltà, ove tali interventi si rendano necessari per garantire la stabilità entro l’Eurozona, condizionando peraltro tali interventi all’adozione controllata di severe politiche nazionali di aggiustamento. Tra il 2011 e il 2013, a due riprese tre regolamenti e cinque direttive dell’Unione europea (Six pack e Two Pack)[58] hanno ulteriormente rafforzato tali meccanismi di controllo, con disposizioni che prevedono anche, per i Paesi dell’Eurozona, sanzioni e ammende in caso di inosservanza. Negli stessi anni è stata attivata la procedura per l’unione bancaria,che ha introdotto un potere sovranazionale di vigilanza affidato per le banche multinazionali maggiori alla Banca centrale europea; è stato poi decisa l’istituzione di una complessa procedura per la risoluzione (in parte nazionale in parte comune) delle eventuali crisi bancarie entro l’Eurozona.

L’idea di base che sottende a questi interventi è quella difesa dal Governo tedesco, che si può definire ordoliberista: secondo questa impostazione, condizione necessaria e sufficiente per superare la crisi è ciascuno Stato tenga in ordine i propri bilanci senza interventi esterni, anche a costo di forti ricadute negative sul welfare e sull’occupazione (come in effetti è avvenuto). Il dibattito degli economisti sull’efficacia di questo modello è stato molto vivace ed è tuttora aperto, perché la crisi non è superata.

L’elezione europea del 2014 si è svolta all’insegna di una procedura nuova, adottata dai principali partiti politici ormai collegati al livello europeo (i popolari, i socialisti, i liberali, la sinistra), ciascuno dei quali ha candidato alla presidenza della Commissione un proprio esponente, impegnandosi reciprocamente a proporre e a sostenere nel Parlamento neoeletto il candidato del partito più votato; e così è avvenuto con la nomina di Jean-Claude Juncker, approvata anche dal Consiglio europeo come i trattati esigono. Con ciò la prassi costituzionale dell’Unione è mutata, dando vita per la prima volta a una procedura nella quale vi è correlazione diretta tra il voto popolare e il governo dell’Unione rappresentato alla Commissione: è un meccanismo istituzionale che si avvicina di molto a quello di una repubblica federale parlamentare, fondata sulla doppia legittimazione del voto popolare (rappresentato dal Parlamento eletto) e degli Stati membri presenti nei due Consigli[59].

Pur con i limiti che abbiamo menzionato, l’Unione europea costituisce l’evento storico più importante e innovativo che l’Europa abbia conosciuto nel corso del Novecento. Il modello di integrazione pacifica e condivisa realizzato con i trattati e con le armi del diritto – sulla base dei principi di sussidiarietà, democrazia, tutela delle diversità, libera concorrenza e solidarietà – ha suscitato ammirazione, speranze e concreti propositi di imitazione da parte di altre regioni del pianeta, dall’Africa all’America meridionale all’Asia. La prospettiva futura di un modello federale di nuova concezione, assai meno accentrato rispetto alle altre federazioni esistenti, resta la più coerente rispetto al disegno di integrazione pacifica nato dopo le due guerre mondiali. Ma di fronte alle sfide della crisi economica e sociale e delle migrazioni di massa dal Medio Oriente verso l’Europa, la risposta degli Stati membri è stata sinora debole e incerta; e il favore dell’opinione pubblica per l’unione europea non è più scontato, mentre stanno anzi rinascendo egoismi nazionali e pulsioni xenofobe che sembravano finalmente esorcizzate. La grande cattedrale è tuttora incompiuta.

Note[modifica]


  1. A. Spinelli, E. Rossi, Il Manifesto di Ventotene (1941), Milano 2006.
  2. È interessante notare che in questa evoluzione intellettuale ebbero un peso notevole le idee dei federalisti inglesi, da Seeley a Lothian a Robbins, che Spinelli e Rossi conobbero in carcere su segnalazione di Luigi Einaudi.
  3. Dichiarazione Schumann del 9 maggio 1950, della quale Monnet fu l’ispiratore: J. Monnet, Mémoires, Paris 1976, pp. 373-392.
  4. http://eur-lex.europa.eu/legal-content/FR/TXT/PDF/?uri=CELEX:11957E/TXT&from=EN
  5. Un peso determinante ha avuto (ed ha tuttora) la politica agricola entro la Cee, con lo scopo di tutelare, attraverso corposi finanziamenti di sostegno, la produzione agraria continentale rispetto ai prodotti meno costosi provenienti da altre regioni del pianeta. Solo molto lentamente si è fatta strada su questo fronte una politica di liberalizzazione degli scambi.
  6. Art. 100, poi 100A; poi 95; cf. TFUE/Lisb. art. 114.
  7. Corte di Giustizia europea, Sentenza van Gend & Loos cr. Amministrazione olandese delle imposte del 5 febbraio 1963 (causa 26/62).
  8. Corte di Giustizia europea Sentenza Costa cr. Enel del 15 luglio 1964 (causa 6/64).
  9. Corte di Giustizia europea Sentenza Sace cr. Min. Finanze italiano del 17 dicembre 1970 (causa 33/70).
  10. Corte di Giustizia europea Sentenza Finanze cr. Simmenthal del 9 marzo 1978 (causa 106/77).
  11. Si vedano i casi riportati in Mengozzi, 1994, pp. 328-340.
  12. Corte costituzionale italiana, sentenza Frontini cr. Finanze del 27 dicembre 1973 (causa 183/73).
  13. Celebre su questo punto la sentenza Rewe Zentral cr. Bundesmonopol del 20 febbraio 1979 (causa 120/78). Essa è nota come sentenza Cassis de Dijon, perché si trattava di giudicare se fosse lecito all’amministrazione tedesca negare il commercio del liquore Cassis di Digione che possedeva una gradazione alcoolica diversa da quella prevista dalla normativa della Repubblica federale. La Corte giudicò illecito il divieto.
  14. Corte di Giustizia europea, Sentenza van Gend & Loos cr. Amministrazione olandese delle imposte del 5 febbraio 1963 (causa 26/62).
  15. Costa cr. Enel, 15 luglio 1964 (causa 6/64).
  16. Corte di Giustizia europea Sentenza Finanze cr. Simmenthal del 9 marzo 1978 (causa 106/77).
  17. In Italia il reddito pro capite si è moltiplicato per cinque nel corso di un quarantennio, dal 1950 al 1990.
  18. Nel 1966 con il cd. Compromesso di Lussemburgo si è raggiunto tra i governi un accordo di fatto che consentiva ad ogni governo di opporsi all’adozione di decisioni sulle quali pure, in base al trattato, sarebbe stato ormai possibile decidere a maggioranza qualificata, quando asserisse che l’adozione della decisione avrebbe leso un interesse fondamentale dello stato dissenziente.
  19. Trattato dell’8 aprile 1965, entrato in vigore nel 1967.
  20. Atto relativo all’elezione […] a suffragio universale diretto del Parlamento europeo, 20 settembre 1976.
  21. Projet de Traité instituant l’Union européenne, Parlement Européen , février 1984.
  22. Atto unico europeo (1986). http://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/PDF/?uri=CELEX:11986U/TXT&from=EN
  23. T. Padoa-Schioppa, La lunga via per l’euro, Bologna, Il Mulino 2004, p. 35.
  24. http://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/?uri=CELEX:11992M/TXT
  25. Inghilterra e Danimarca si sono tenute fuori, pur avendo ratificato il Trattato: è la clausola detta dell’opting out.
  26. Art. 130 A-E, corrispondenti agli art. 158-162 del Trattato Cee (2000); TFUE/Lisb artt. 174-178.
  27. Art. 117-122, corrispondenti agli art. 136-145 del Trattato Cee (2000); TFEU artt. 151-161.
  28. Art. 130 R-T, corrispondenti agli art. 174-176 del Trattato Cee (2000); TFEU art. 191-193. Su questa base la Cee – che sin dagli anni settanta era intervenuta con direttive in materia di acque, aria, inquinamento acustico, rifiuti, fauna e flora – ha emanato decine di direttive che le legislazioni nazionali più o meno celermente recepito.
  29. Art. J 1 – J 18, corrispondenti agli art. 11-28 del Trattato UE (2000); cf. TEU/Lisb art. 21-45.
  30. Art. K 1- K 14, corrispondenti agli art. 29-42 del Trattato sull’ UE (2000); cf. TFEU/Lisb art. 67-89.
  31. Art. 8 – 8 E, corrispondenti agli art. 17-22 del Trattato Cee (2000); cf. TFEU/Lisb art. 18-25.
  32. Art. 3 B, corrispondente all’art. 5 del Trattato Cee (2000): “nei settori che non sono di sua competenza esclusiva la Comunità interviene, secondo il principio di sussidiarietà, soltanto se e nella misura in cui gli obbiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono dunque, a motivo delle dimensioni e degli effetti dell’azione in questione, essere realizzati meglio a livello comunitario”. L’art. 5 TUE/Lisb ha formulato il principio in termini non identici, ma corrispondenti nella sostanza.
  33. Art. 158 § 2 del Trattato di Maastricht.
  34. Trattato di Maastricht (1992), Protocollo sulla procedura per i disavanzi eccessivi; Risoluzione del Consiglio europeo relativa al patto di stabilità e di crescita (Amsterdam, 17 giugno 1997).
  35. Testo in http://www.europarl.europa.eu/topics/treaty/pdf/amst-en.pdf
  36. Trattato di Amsterdam, art. 158. 2, corrispondente (per questa parte) all’art. 214. 2 del Trattato Cee (2000); cf. TEU/Lisb art. 17.3 e 17.7.
  37. Art. 158. 2 al. 3, corrispondente all’art. 214. 2 al. 3 del Trattato Cee (2000); cf. cf. TEU/Lisb art. 17.7.
  38. Art. J. 13.2, corrispondente all’art. 23. 2 del Trattato sull’UE (2000); cf. TEU/Lisb art. 31.2.
  39. Art. J. 13.2, corrispondente all’art. 23. 2 del Trattato sull’UE (2000); cf. TEU/Lisb art. 31.1.
  40. Testo in http://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/?uri=CELEX:12001C/TXT
  41. Trattato Cee (2000), nuovo art. 214. 2; cf . TEU/Lisb art. 17.7.
  42. Tra queste: viene eliminata la clausola di salvaguardia sulla cooperazione rafforzata (ma non sulla difesa), viene esteso il principio maggioritario a taluni accordi internazionali, ai diritti di circolazione e di soggiorno, alle misure (non le normative) sull’immigrazione, a diversi profili della politica commerciale, alla protezione dei lavoratori, all’industria, alla coesione economica e sociale, allo statuto dei partiti politici europei, alle procedure di bilancio.
  43. Trattato di Nizza, Protocollo A sull’Allargamento, art. 3: nuovo art. 205. 4 Trattato Cee; cf. TEU/Lisb, art. 16.4 e TFEU/Lisb, art. 238.
  44. http://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/?uri=CELEX:12012P/TXT
  45. Con la presenza, tra gli italiani, dei giuristi Andrea Manzella, Elena Paciotti e Stefano Rodotà.
  46. Testo in: https://europa.eu/european-union/sites/europaeu/files/docs/body/treaty_establishing_a_constitution_for_europe_it.pdf
  47. Trattato costituzionale (2004), I. 40-41.
  48. Trattato costituzionale (2004), I. 44.
  49. Il sito http://european-convention.eu.int che conteneva i materiali della Convenzione è stato purtroppo disattivato.
  50. Trattato costituzionale (2004), IV. 443. Si rammenterà che la Costituzione degli Stati Uniti d’America del 1787 prescriveva che la Costituzione stessa entrasse in vigore con la ratifica di almeno nove colonie su tredici. Senza questa norma non è improbabile che gli Stati Uniti non sarebbero stati in grado di superare lo stadio della Confederazione.
  51. http://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/?uri=CELEX:12007L/TXT (= TEU/Lisb)
  52. http://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/?uri=CELEX:12012E/TXT (= TFEU/Lisb)
  53. Il Trattato prevede che la Commissione sia composta a partire dal 2014 da un numero ridotto di membri, pari ai due terzi degli Stati membri, scelti a rotazione secondo criteri ancora da definire (TUE/Lisb, art. 17. 4-5); tuttavia tale disposizione non è stata per ora applicata e nella Commissione nominata in seguito all’elezione del 2014 sono presenti tutti i 28 Stati, ciascuno con un Commissario, anche se la nomina di alcuni vicepresidenti con deleghe in parte sovraordinate a quelle dei Commissari mira a razionalizzare le procedure e i frazionamenti di competenze.
  54. È prevista anche una procedura semplificata di revisione con riferimento alla parte del Trattato sulle politiche interne dell’Unione, da intraprendersi su iniziativa di un governo o del Parlamento europeo o della Commissione, con decisione unanime del Consiglio europeo, sentito il Parlamento europeo (TUE/Lisb, art. 48.6).
  55. Viene peraltro introdotta una “clausola passerella” che consente al Consiglio, previo voto positivo del Parlamento europeo, di passare in futuro – purché sulla base di una iniziale decisione unanime – al principio maggioritario o alla procedura legislativa ordinaria, inclusiva dunque della codecisione del Parlamento europeo, sulle materie relative alle politiche interne e alla politica estera e di sicurezza dell’Unione (art. 48.7); una clausola verosimilmente destinata a restare lettera morta nel futuro prevedibile dell’Unione a ventotto, tanto più che l’opposizione anche di un solo Parlamento nazionale è sufficiente a sterilizzarla (TUE/Lisb, art. 48.7). Tuttavia è molto interessante la possibilità di avvalersi della stessa procedura anche all’interno della cooperazione rafforzata, con disciplina in parte diversa (TFUE/Lisb, art. 333).
  56. Treaty on Stability, Cooperation and Governance (TSCG), più noto come Fiscal Compact; firmato il 2 marzo 2012 ed entrato in vigore per tutti i Paesi dell’Eurozona (19 su 28 Stati Membri dell’UE) il 3 ottobre 2012. Cf https://en.wikipedia.org/wiki/European_Fiscal_Compact
  57. http://www.esm.europa.eu/about/legal-documents/ESM%20Treaty.htm La costituzione di un Fondo ESM di 500 miliardi di euro sarà dilatata nel tempo; per il salvataggio di banche in crisi si è previsto, con successive delibere del Consglio e con nuove direttive (cf. la Dir. 59/2014) che non più del 10% delle risorse complessive necessarie al salvataggio di una Banca in crisi debba gravare sull’ESM, mentre la quota di gran lunga maggiore delle risorse necessarie al salvataggio debba gravare sul Paese di appartenza della Banca, con misure a carico degli azionisti, degli obbligazionisti ed anche dei maggiori correntisti della banca prioritariamente rispetto ad interventi diretti dello Stato di appartenenza: in ciò modificando la procedura introdotta per il salvataggio della Grecia dell’Irlanda, che avvenne invece negli anni 2008-2011 con forti interventi di finanza pubbica disposti pro-quota dagli Stati dell’Eurozona allo scopo di tutelare il sistema bancario di Paesi (tra i quali in particolare la Germania) che avevano investito somme cospicue nell’acquisto di titoli pubblici di tali Paesi.
  58. Vedi il testo: [1]
  59. Rinvio su ciò al volume A. Padoa-Schioppa, Verso la federazione europea?, Bologna 2014, che raccoglie i miei saggi sull’evoluzione costituzionale dell’Unione europea.